Qualche anno fa, a una conferenza nei Paesi Bassi, qualcuno dal pubblico mi ha chiesto cosa pensavo di Twitter e della sua utilità per i giornalisti. “Be’”, ho cominciato, “è un fenomeno interessante, e potrebbe essere utile…”. Poi mi sono fermato. Stavo dicendo cose che non pensavo. Così ho detto: “In realtà non credo sia più utile di andare a origliare in un bar. E per quanto riguarda quelli che twittano, per la grande maggioranza credo sia gente ossessionata, che non esce abbastanza di casa, vuole farsi pubblicità e ha trovato un’altra scusa per tormentarci con le sue banalità”.
E questa è rimasta la mia opinione, almeno fino al mese scorso. Avevo un nuovo libro da promuovere e il mio editore mi ha spinto a entrare nel mondo di Twitter. Ho accettato controvoglia. E così ho aperto un account (@Universaljourno) e ho cominciato a twittare (che brutta parola).
Twitter, devo ammetterlo, è un aggeggio molto strano. Non perché 140 caratteri sono troppo pochi (anche se in effetti Twitter non è il posto ideale per fare ragionamenti complicati), ma perché all’inizio non sapevo esattamente cosa scrivere. Durante la primavera araba Twitter era stato molto utile per far restare i rivoluzionari in contatto tra loro. Però, anche se ho twittato alcune frasi di sostegno e qualche riflessione sulle proteste di Occupy, al momento non sono coinvolto in nessuna rivolta popolare.
Dunque, Twitter funziona molto bene come forum per gruppi di persone ben definiti che hanno interessi comuni. Gli utenti più esaltati che conosco sono i miei colleghi che si occupano di politica britannica. Spesso parlano dei temi più discussi su Twitter e anche se un deputato starnutisce, loro sono pronti a twittarlo. Uno di loro – recentemente nominato il “twittatore politico dell’anno”, per quanto sia incredibile che esista un premio del genere – twitta o ritwitta (cioè inoltra un tweet di qualcun altro ai suoi follower) circa cinquanta volte al giorno. Un’attività che a me sembra spaventosamente simile a un lavoro a tempo pieno.
La comunità più ovvia della quale faccio parte su Twitter è quella dei giornalisti. Perciò quelli che mi seguono di solito sono colleghi o studenti di giornalismo. La maggior parte dei miei tweet, perciò, sono consigli per essere buoni reporter, commenti su articoli o titoli stupidi e considerazioni occasionali sulle tendenze del giornalismo. All’inizio ho provato a twittare quattro volte al giorno. Ma per farlo bisogna avere quattro cose intelligenti da dire tutti i giorni e io non ce le ho. Così ogni mattina prima di andare al lavoro cercavo disperatamente in rete qualcosa da scrivere.
Mi sembrava una costrizione, come avere un lavoraccio in più. Ho smesso. Ora twitto solo cinque, sei volte alla settimana. Dal momento che per avere molti follower bisogna essere molto famosi o twittare sempre, il mio triste destino sarà quello di essere poco seguito, cosa che non mi turba (ma che potrebbe far innervosire il mio editore).
Ma Twitter è davvero un bene per le notizie? I miei amici della politica interna pensano di sì, anche se la loro definizione di “notizia” (un deputato che sfoggia una nuova ventiquattrore, per esempio) è piuttosto diversa dalla mia. Per le notizie dell’ultim’ora, Twitter è inutile. Certo, ogni tanto può anticipare di qualche minuto le agenzie di stampa e i canali all news. Ma per non aspettare qualche minuto in più si rinuncia a fonti sicure.
Due esempi. Primo: l’attentato di un anno fa alla deputata del congresso statunitense Gabrielle Giffords. Un collega ha beccato la notizia su Twitter, credo trenta secondi prima che venisse battuta dalle agenzie. Le agenzie confermarono più volte che Giffords era gravemente ferita, ma ancora viva. Su Twitter, invece, c’era chi diceva che era morta, chi viva, poi ancora una volta morta, o una via di mezzo. E non si conosceva l’identità di chi scriveva queste notizie né si sapeva se queste persone si trovavano davvero sul posto o se invece stavano solo sentendo la radio.
Secondo esempio: un mese fa l’account di Twitter della tv britannica Sky News, controllata in parte da Rupert Murdoch, ha scritto che il figlio minore del miliardario australiano, James, era stato arrestato. Abbiamo passato mezz’ora a cercare di capire se la notizia era fondata prima dell’ammissione di Sky News: il loro account era stato hackerato.
Dunque, visto il nostro obiettivo, con il mio editore abbiamo pensato che fosse meglio promuovere il libro e non l’autore. Il mio libro parla delle prime Olimpiadi dell’era moderna (ad Atene, nel 1896) e sulla loro genesi stiamo pubblicando ogni giorno un tweet come se i giochi si svolgessero ora (@Olympics1896), ricostruendo così i momenti in cui vennero concepiti quei giochi olimpici e cercando di far capire gli sforzi che ci sono voluti perché potessero essere organizzati. Uno storico sta facendo lo stesso con la seconda guerra mondiale (@RealTimeWWII). Entrambi gli account ci risparmiano l’orrore di twittare opinioni banali o cose su noi stessi.
*Traduzione di Antonella Guerrera.
Internazionale, numero 932, 20 gennaio 2012*
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