In piedi sul podio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunita per la sua sessione annuale, Barack Obama si è trovato di fronte il pubblico più ben disposto che un presidente americano potesse desiderare. Delegati di solito molto antiamericani, come il rappresentante di Cuba, lo hanno ascoltato con rispetto. Il presidente venezuelano Hugo Chávez ha elogiato il suo discorso. E il leader libico Muammar Gheddafi ha detto che Obama dovrebbe restare alla guida degli Stati Uniti anche dopo la fine del suo mandato.
In realtà le parole di Obama erano banalità multilateraliste. Ma considerato che l’amministrazione Bush ha dato il tormento all’Onu per otto anni, fino a scegliere come rappresentante degli Stati Uniti al palazzo di vetro il falco nazionalista John Bolton, perfino quelle ovvietà hanno avuto un formidabile effetto rassicurante. Così, quando Obama ha detto che un ordine mondiale basato sul ruolo di una singola nazione non funzionerà mai, non ha dovuto aggiungere “a differenza di quello che pensavano i nostri predecessori”, perché tutti i presenti hanno capito il messaggio. Il presidente stava dicendo di voler mettere fine all’unilateralismo dell’amministrazione Bush.
In diplomazia conta molto quello che a Washington si chiama atmospherics, cioè le cose dette per creare un clima favorevole, e sicuramente negli organismi multilaterali gli Stati Uniti saranno molto più convincenti con Obama di quanto lo siano mai stati quando c’era Bush. E questo è un passo avanti. Che poi l’accoglienza estatica tributata al discorso di Obama soprattutto in Europa fosse davvero giustificata è un altro paio di maniche. Le parole di Obama hanno suscitato tanta eco in Europa anche perché sembravano più vicine a quelle dei leader europei che a quelle di un presidente degli Stati Uniti. Come diceva, però, un presidente americano molto meno amato in Europa – Ronald Reagan – “fidati, ma verifica”.
Dal 2006, quando ha fatto il suo ingresso dirompente sulla scena politica, Barack Obama è stato una specie di tabula rasa su cui i liberal americani e i socialdemocratici europei hanno proiettato tutte le loro speranze: quella di un’America post-razziale (negli Stati Uniti); e quella in un ritorno all’America che piace agli europei, cioè quella “buona” di Martin Luther King, Bruce Springsteen e Woody Allen, al posto dell’America “cattiva” di Dio, dei cannoni e di George W. Bush. Un’America, insomma, disposta a tenere a freno i suoi appetiti imperiali. Ma negli Stati Uniti, come in gran parte del mondo musulmano, quelle speranze sono già quasi svanite. La sinistra americana che tifa per Obama ha scoperto ciò che avrebbe dovuto sapere dal principio: e cioè che ha mandato alla Casa Bianca non un “progressista” – come si dice oggi in America – ma un centrista.
Gli europei, invece, a giudicare dall’accoglienza al discorso di Obama all’Onu, non hanno ancora capito come stanno le cose. A nove mesi dall’inizio della sua presidenza, il divario tra le cose che l’amministrazione Obama ha promesso di fare (su problemi come la questione palestinese, la non proliferazione nucleare o il cambiamento climatico) e le cose che ha fatto davvero non ha smesso di aumentare. All’Onu Obama ha detto, per esempio, che il mondo deve smettere di “invocare a parole” la pace in Medio Oriente e deve cominciare a darsi da fare.
Ma anche se il presidente ha nominato come inviato speciale in Medio Oriente l’ex senatore George Mitchell (il principale negoziatore dell’accordo di pace in Irlanda del Nord) e ha fatto la voce grossa con Israele perché smetta di espandere gli insediamenti nei Territori palestinesi, il governo israeliano continua a fare più o meno quello che gli pare come faceva durante la presidenza Bush. E né Obama né Hillary Clinton hanno fatto qualcosa di concreto dopo le belle parole sul riscaldamento del pianeta e sulla minaccia nucleare.
Quanto poi alla fine dell’unilateralismo, diciamo pure che i preparativi di quest’amministrazione per una escalation in Afghanistan non sono un fulgido esempio di disponibilità a consultarsi con gli alleati. A meno che per “consultazione” non s’intenda solo chiedere agli europei quanti soldati vogliono mettere a disposizione per le spedizioni militari americane.
Una volta Winston Churchill disse che non era diventato il primo ministro del suo paese solo per gestire la dissoluzione dell’Impero britannico. Ma la storia non gli diede scelta. Barack Obama, invece, non pensa affatto che il suo compito sia rinunciare una volta per tutte all’egemonia globale dell’America. E nel suo caso, a differenza di Churchill, non è affatto scontato che dovrà farlo.
In un discorso pronunciato durante la presidenza del marito, Hillary Clinton disse che spesso, purtroppo, è impossibile aiutare i poveri o i deboli che incontriamo, ma che almeno bisogna dirgli una parola buona. Con il suo discorso alle Nazioni Unite, Barack Obama non ha fatto nulla di diverso.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it