È difficile stabilire il momento in cui tanti ragazzi in occidente si sono convinti che la consapevolezza sia la chiave per raddrizzare i torti commessi nel mondo. Il fenomeno è molto diffuso in Europa, ma negli Stati Uniti si presenta in forma estrema. Lo dimostra il successo di Kony 2012, un video di 30 minuti prodotto da una ong finora oscura, Invisible children, che vuole “far conoscere Joseph Kony a tutti”, per aprire la caccia al sanguinoso capo di un gruppo paramilitare centroafricano, l’Lra (Esercito di resistenza del Signore), e consegnarlo alla Corte penale internazionale.
Kony 2012 come fenomeno mediatico non ha uguali. A differenza di quanto è avvenuto in Darfur, le imprese di Kony e dell’Lra, note agli specialisti, erano sconosciute alla maggior parte dell’opinione pubblica statunitense ed europea. Il video è stato caricato su YouTube il 5 marzo, e in due settimane l’hanno visto quasi 70 milioni di persone. In questo, alcuni leggono una dimostrazione della sua efficacia. Ma una spiegazione più plausibile del suo successo è che lusinga gli spettatori. Kony 2012 non dice la verità, ma è un esempio di attivismo puerile, buono per tutti. E nella cultura di oggi, se smerci roba del genere difficilmente ci rimetti.
Ci sono poi persone intelligenti che riconoscono alcuni difetti di Kony 2012, ma lo difendono perché ritengono utile usare mezzi consumistici per canalizzare le energie dei giovani oltre il consumismo. Certo interessarsi alla vicenda di Joseph Kony è meglio che interessarsi a un reality show, ma questo da solo non basta. O almeno non basta a spingere la gente ad agire e a pretendere un intervento dei governi. Perché ciò avvenga non basta sapere che Joseph Kony è cattivo. Non ci si può limitare a spacciare la tesi che il suo arresto dimostrerebbe che “il mondo in cui viviamo ha regole nuove” e che “le stesse tecnologie che hanno unificato il nostro pianeta ora ci permettono anche di rispondere ai problemi dei nostri amici”.
Nonostante la sua tecnoutopia, il messaggio di Kony 2012, più che un presagio di un futuro migliore, è una regressione al passato coloniale. Mi ricorda il paternalismo che i missionari sfruttavano rientrando nella madrepatria dagli avamposti dell’impero britannico o francese. D’accordo, a quel tempo non c’era
Facebook o YouTube per ispirare e mobilitare i fedeli. Resta il fatto che gli eccessi di semplificazione e il paternalismo sono farina dello stesso sacco. Kony 2012 è tecnoutopia allo stato puro, che pontifica su come la rete ha cambiato il mondo, sta trasformando la politica e sta diffondendo su vasta scala un’etica dell’altruismo senza frontiere. Tuttavia, a meno di non credere davvero che “il mezzo è il messaggio”, come sosteneva Marshall McLuhan, Kony 2012 non rappresenta un nuovo modo di pensare, ma un nuovo veicolo propagandistico per l’ala umanitaria della vecchia impresa imperiale, con il suo paternalismo verso il “sud del mondo”, il suo senso di superiorità, con il suo disprezzo per le complessità e le ambiguità della storia e della morale.
È una visione puerile del mondo, perfino per gli standard degli Stati Uniti di oggi, dove tutto ciò che è sentimento e istinto viene esaltato al di sopra della razionalità, e dove molti attribuiscono più discernimento allo sguardo del bambino che a quello dell’adulto. Kony 2012 è un’espressione estrema di tutto questo. Nel filmato il capo di Invisible Children, Jason Russell, spiega al figlioletto Gavin “cos’è questa guerra e chi è Joseph Kony”. È uno spettacolo penoso, un catechismo del politically correct in cui non si capisce bene se è più infantile Russell o il bimbo: “Io che lavoro faccio?”, chiede papà Russell. “Fai smettere i cattivi di essere cattivi”, risponde Gavin. Joseph Kony è il cattivo e spetta ai buoni (Russell, gli utenti di Facebook, le forze armate statunitensi e voi) fermare Kony. Non serve nient’altro. Un altro intervento militare in nome dei diritti umani? No problem: è talmente una buona causa… E la storia dell’Uganda? Be’, magari un’altra volta. Ah, e il contesto della ribellione di Kony? Troppo complicato. Per Russell e per i suoi colleghi niente deve intralciare la costruzione di un movimento di persone pronte a incollare manifesti e a far pressione su celebrità e politici perché appoggino la campagna di Invisible children.
Alcuni dirigenti di Invisible children hanno ammesso che in effetti Kony 2012 semplifica i fatti. Dicono che semplificare non è sempre un male. Considerate le buone intenzioni, la tesi può inizialmente anche sembrare credibile. Ma se uno chiama le cose con il loro nome, cioè propaganda, allora la campagna di Invi-sible children appare sotto una luce diversa. Perché la propaganda è propaganda, comunque. Ma Russell e i suoi, e decine di milioni di ammiratori del loro video, si comportano come se non vedessero quant’è pericoloso tutto questo. È la dimostrazione che il vecchio adagio secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni è più attuale che mai, e prospera, in questo caso, su YouTube.
*Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 941, 23 marzo 2012*
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