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Gli spot del califfato formato famiglia

Guardo questo video:


e per un momento mi ritrovo nel suq di Damasco di dieci anni fa: merce invitante e colorata, il vociare confuso dei commercianti che cantilenano i prezzi, e bambini eccitati che corrono da tutte le parti. Potrebbe essere Napoli, Palermo, Lecce.

E invece quell’anguria che fa capolino succosa al ventiquattresimo secondo sta su un banco del mercato di Raqqa, ossia la capitale del territorio controllato dal gruppo Stato islamico, o Isis. E io sono dentro un mujatweet, la geniale invenzione dell’Isis per attirare giovani e famiglie dentro il sogno del califfato.

I mujatweet – lo dice già il nome dal suono cacofonico che mette insieme l’idea di combattenti islamici armati fino ai denti alle cinguettate da social network – sono piccoli video di qualche minuto: moderni, visivamente accattivanti, promozionali, carini.

Usano primi piani e audio d’ambiente, suoni e volti quasi rubati dalla camera che si muove veloce e sicura per afferrare pochi istanti della vita quotidiana al tempo del califfato. I testimonial dell’Isis sono persone comuni, che vanno al mercato, che fanno la spesa, pesano le arance, assaggiano la frutta. Ci sono bambini che giocano e corrono felici nei parchi, palloncini colorati che volteggiano nei cieli, e non manca neanche lo zucchero filato e il carretto con il signore che urla: “Gelati!”.


Così, quando è il momento di rompere il digiuno del mese sacro di Ramadan, le scodelle di cibo campeggiano su tavole imbandite e bambini sorridenti ci si tuffano dentro.


Il cibo è uno dei temi portanti dei mujatweet. In quest’altro per esempio:


il proprietario di un negozio di kebab taglia la sua bella carne succulenta per farne dei sandwich. E quasi ci convince che sotto lo “stato islamico” ci sia un rigoroso controllo di qualità nella scelta delle materie prime e nella pulizia.

Lo guardo mentre pronuncia parole rassicuranti: la gente è felice, la gente sta bene, la gente esce e compra, compra e consuma. “Sicurezza, stabilità”, ripete sorridendo. Sembra quasi uno spot elettorale. Potrebbe averlo commissionato un qualsiasi partito europeo, o una banca: vi promettiamo sicurezza, stabilità famigliare, un’economia che va a gonfie vele.

L’estetica selfie dei mujatweet parla il linguaggio del capitalismo dei nostri tempi, quello che si è reinventato nella crisi: il consumo è stuzzicato e invogliato, ma per essere veramente seducente ci dev’essere un paese dove regnano stabilità e sicurezza. Non solo i tagli veloci delle inquadrature sono la punteggiatura formale perfetta di questa sorta di video tweet, ma anche dal punto di vista dei contenuti i mujatweet ribadiscono messaggi che non sembrano poi così tanto lontani dall’ideologia neoliberalista. Felicità e benessere economico. Stabilità e consumo. Sicurezza e protezione. Siamo come voi, dicono i mujatweet.

E lo ribadisce il tocco multiculturale di questi spot a episodi.

Qui compaiono dei bambini bosniaci:


Qui un ragazzo che parla francese:


Qui c’è un altro ragazzo che mischia arabo e tedesco:


Il mio preferito è questo giovanotto che salmodia in tedesco:


È talmente affabile che fa anche autoironia quando a un certo punto sorride e dice: “Non dovrei sorridere, la situazione è seria”. E ti ha subito conquistato, mostrandoti il backstage di se stesso. Creare empatia condividendo le proprie emozioni, anche le proprie debolezze: sembra quasi uscito dal manuale di un programma tv del pomeriggio. Amici, La vita in diretta.

Siamo proprio come voi, abbiamo dubbi, incertezze, bambini, famiglie da sfamare, ci piace sorridere e mangiare gelati, e vogliamo tutti andare a fare la spesa con le tasche piene: i mujatweet lo dicono in meno di un minuto, nel linguaggio istantaneo della comunicazione social.

Talmente istantanei, talmente esteticamente accattivanti, talmente ossessivamente selfie che quasi passano inosservati i kalashnikov, che pure campeggiano tra l’inquadratura del gelato e quella della scodella dal cibo fumante. I mujahidin sono armati, certo. Avete mai visto un mujahidin non armato?

Ma quel kalashnikov è un messaggio subliminale nell’estetica dei tweet: attenzione, quel kalashnikov serve per ottenere quel gelato, quel parchetto, quell’anguria, quei bambini felici. E quindi finisce per non contrastare con l’altro messaggio, quello del consumo, del benessere, della stabilità.

I mujatweet sono l’altra faccia dell’orrore, quella pulita, quella consumista, paradossalmente occidentale. Quella innocente dell’anguria rotonda e succosa. Non minacciano sgozzamenti e crocifissioni, non ci sono tute color arancio e boia incappucciati. Sarà per questo che YouTube non si disturba a toglierli di mezzo. Anzi: se scrivete “Al Hayat video” YouTube propone una compilation di oltre duecento pezzi, “best of Al Hayat video”.

Al Hayat è una delle tre società che ufficialmente producono video per il marchio Isis. Le altre due – Al Furqan, che esiste in Iraq già dal 2006, e Al I’ittisam, di stanza in Siria – sono specializzate in contenuti in lingua araba, diretti quindi al pubblico arabofono: il loro stile è completamente diverso, così come il messaggio che diffondono.

Campi lunghi e dissolvenze si contrappongono all’estetica selfie dell’instant tweet che piace tanto a noi occidentali. Le battaglie durano interminabili minuti, bombe ed esplosioni prendono il posto di bambini e angurie. La violenza qui viene mostrata, svelata, esposta.

In un video c’è perfino una carrellata ben documentata di parti di corpo di avversari uccisi, in particolare un piede mozzato (vi ho avvisato, ecco il link). La voce indugia sadicamente sui particolari, sottolineando che i resti appartengono a guerriglieri iraniani e sciiti, tutto studiato ad hoc per alimentare l’odio settario.

Ma anche qui l’aspetto multiculturale dello “stato islamico” torna, ed entrano in camera mujahidin con accenti che rivelano nazionalità diverse. E anche l’apparizione nel video della star del momento, Omar al Shishani, il guerrigliero ceceno che si è unito all’Isis, non serve certo a sottolineare la stabilità economica a Raqqa. La violenza si vede e si sente: è a faccia scoperta, nei video di propaganda in arabo.

Perciò torno all’anguria nel mercato di Raqqa che tanto mi ricorda Damasco prima di tutto questo sfascio. Cosa c’è di rassicurante in questa frutta rotonda, in questi bambini che corrono dietro allo zucchero filato fluorescente, in questi piccoli videogioielli colorati? Cosa c’è che ha tranquillizzato le pattuglie della polizia online, quelle che censurano i video del terrore e ripuliscono dalla violenza i nostri social network? Sarà l’estetica da tweet? Oppure è il contenuto: tutti questi bambini, questi mercati, questo cibo fumante hanno salvato i mujatweet dalla sparizione da internet – censura che invece è toccata ai loro più audaci colleghi portatori di violenza in campo lungo.

Non ho una risposta. So solo che gli attivisti siriani, per attirare l’attenzione del mondo imbambolato a seguire le produzioni dello “stato islamico” come se fossero première di Hollywood, hanno dovuto mettersi le tute arancioni, rinchiudere un po’ di bambini in una gabbia, e far finta di appiccarsi il fuoco per urlare che loro vengono uccisi tutti i giorni, dal loro stesso governo, nel silenzio dei mezzi d’informazione.

Quel giorno gli attivisti siriani hanno avuto il loro momento di gloria, centinaia di migliaia di tweet ribattuti dalle agenzie di news globali. Poi è tornato tutto nel silenzio della normalità. Quella stessa normalità che protegge i piccoli e veloci mujatweet e continua a farli moltiplicare.

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