Nope di Jordan Peele è un trionfo
Ho adorato Nope. Ho trovato la prima metà del film talmente inquietante, bella e brillante, e caratterizzata da un umorismo così disarmante, che ho pensato davvero che Jordan Peele stesse per realizzare un capolavoro del cinema di genere. Poi, sul momento, mi è sembrato che il film cominciasse a perdere colpi. Ma adesso, dopo averci pensato e averne parlato ossessivamente con altri fanatici cinefili, sono abbastanza sicura che funzioni fino in fondo, in virtù di una straordinaria logica emotiva che è difficile da tradurre in analisi.
Come minimo, Nope possiede qualità così grandi e ossessive sull’alienazione, gli
animali e la cinefilia – tutti argomenti che mi stanno molto a cuore – che ho capito subito che stavo vedendo un film fatto apposta per me. Che sia fatto anche per voi o meno, è una questione tra voi e le vostre personali divinità.
Il film si apre con una citazione biblica e le misteriose conseguenze della furia di uno scimpanzé. Si tratta del lancio di un guanto di sfida registico, immediato e drammatico. Anche se Jordan Peele se ne va in giro a rilasciare interviste dichiarando di essere felice che la gente consideri questo film come un semplice intrattenimento estivo di successo, la sua scena d’apertura è stata quel genere di dichiarazione di grande ambizione che è raro vedere ultimamente.
L’inquietante citazione biblica è la seguente: dal libro del profeta Naum capitolo tre, versetto sei. Dio punisce i peccati del popolo della crudele e corrotta città di Ninive, capitale dell’impero assiro, una “città sanguinaria, piena di menzogne,
colma di rapine, cadaveri senza fine!”: “Ti getterò addosso immondezze,
ti svergognerò, ti esporrò al ludibrio”.
Segue una scena tratta dal set di una vecchia sitcom degli anni novanta, Gordy’s home. In essa assistiamo a una festa di compleanno per Gordy – lo scimpanzé protagonista della serie – durante la quale la sua “famiglia” umana continua a portargli stupidi regali. L’ultimo di questi è una grande scatola di palloncini che volteggiano e scoppiano a contatto con le luci dello studio, il che sembra far arrabbiare l’animale. Più tardi, dopo uno spaventoso bagno di sangue, viene detto che lo scimpanzé ne aveva “abbastanza”, senza che si capisca perché l’animale abbia improvvisamente dato in escandescenze omicide.
Ma il motivo è abbastanza ovvio, e segue letteralmente la citazione biblica. Lo
scimpanzé ne ha abbastanza dell’abominevole immondizia che gli viene gettata addosso e di essere trasformato in uno spettacolo abietto. Peele rischia di sottolineare fin troppo l’evidenza, mostrando lo scimpanzé che, alla fine della scena, si toglie dalla testa un luccicante cappellino a forma di cono e lo getta a terra.
Il tema principale di Nope è il modo in cui trasformiamo compulsivamente la nostra esperienza della realtà in spettacolo
Dopo la furia sul set di Gordy, la scimmia siede tranquillamente per qualche momento in mezzo al sangue e ai cadaveri, e dietro di lei si vede la scarpa da ginnastica di una delle vittime del cast che ha appena sbranato. È dritta sul tallone, con la punta del piede rivolta verso il cielo, in un equilibrio assolutamente innaturale. Quale sia la forza che la tiene in piedi non verrà mai spiegato nel film. Ma in seguito vedremo la scarpa da ginnastica custodita in una teca di vetro nel
piccolo museo dedicato alla piccola celebrità dell’unico membro del cast sopravvissuto, l’ex attore bambino Ricky “Jupe” Park (Steven Yeun). Questi interpretava un piccolo asiatico di nome Jupiter, presumibilmente figlio adottivo della famiglia bianca della sitcom, ed è diventato proprietario e gestore di un parco a tema sul selvaggio west a quaranta miglia da Hollywood, chiamato Jupiter’s Claim.
E questi sono solo i primi cinque minuti del film. La trama principale aggiunge la fantascienza all’horror tipico dei film di Peele. È la storia di una coppia di fratelli, Otis “Oj” Haywood Jr (Daniel Kaluuya) e sua sorella Emerald “Em” Haywood (Keke Palmer), che cercano di mantenere in vita l’allevamento di cavalli di famiglia dopo la misteriosa e improvvisa morte del padre, Otis Sr (Keith David), ucciso da un improvviso e bizzarro fenomeno: la caduta dal cielo di piccoli oggetti metallici d’uso comune, come monete, chiavi e simili.
La realtà diventa spettacolo
L’Haywood’s Hollywood Horses è l’unica azienda di addestramento di animali gestita da neri che fornisce cavalli pronti per l’uso all’industria dello spettacolo di Hollywood. Come Park, i fratelli si trovano a quaranta miglia da Hollywood, ai margini della capitale dello spettacolo. Anche solo mantenere la loro piccola attività di addestratori di cavalli è ormai una dura sfida, in un settore dominato
dalla grafica digitale e incline a rinunciare all’uso di animali veri. Ma a questo si aggiungono le ripetute apparizioni di un ufo che spaventa i loro cavalli e semina presto danni molto peggiori.
I disperati tentativi dei fratelli di catturare e monetizzare quella che chiamano “il video per Oprah” dell’ufo che li prende di mira – il video che otterrà una grande copertura mediatica, fino alla saturazione – si ricollega al tema principale del film, ovvero il modo in cui trasformiamo compulsivamente la nostra esperienza della realtà in spettacolo.
In ogni caso, è questo il tema a cui Peele continua a fare riferimento nelle interviste, come gancio per il film: la “dipendenza degli esseri umani dallo spettacolo”, complicata dal fatto che Peele stesso è consapevole di “ragionare su questa nozione nello stesso momento in cui stai cercando di creare qualcosa da cui la gente non possa distogliere lo sguardo”.
Questo ha naturalmente spinto alcuni dei critici più zelanti a procurarsi una copia di La società dello spettacolo di Guy Debord per trovare citazioni pertinenti, come questa: “Nelle società in cui prevalgono le moderne condizioni di produzione”, ha scritto Debord, “tutta l’esistenza si presenta come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto quanto veniva vissuto direttamente si è trasformato in una rappresentazione”.
Ed effettivamente questo offre un primo aiuto nel tentativo di cogliere il senso del film. Ci sono anche altri fili narrativi, come le ambizioni hollywoodiane di Em, l’ossessivo direttore della fotografia Antlers Holst (Michael Wincott) che viene convinto dai fratelli Haywood a cercare di catturare il “video impossibile” della creatura aliena, e l’esilarante nerd tecnologico Angel Torres (Brandon Perea), che lavora nella catena di articoli elettronici Fry’s, e che finisce per dotare l’Haywood Ranch di attrezzature per la sorveglianza aliena. Ma esiste un’intrinseca contraddizione, perché Peele si lamenta anche della cancellazione del contributo dei neri alla storia di Hollywood e alla storia in generale. Essere esclusi dal potente mondo dello spettacolo, o non ricevere alcun credito per avervi partecipato, è uno scandalo, anche se probabilmente una maledizione ancor più grande è quella di trovarsi invischiati in un mondo moderno dove la realtà diventa spettacolo. È però troppo tardi per intervenire su questa maledizione più grande.
Creature non umane
Ma oltre a questo, il racconto poggia su un altro aspetto fondamentale: gli animali, o meglio le creature non umane, se si include il misterioso alieno mutante che li attacca. Emersa da una nuvola sinistra e immobile nel cielo, questa creatura somiglia in alcune scene a una nebbia o a un movimento di uccelli, a volte a un’enorme manta, e altre volte ai polpi dall’aspetto più elaborato. Pensando alla forza d’attacco proveniente dal cielo come a un animale, piuttosto che a una banale astronave aliena, Oj comincia a intuire i modi con cui sventare i suoi attacchi e persino reagire. Uno di questi è quello di non guardare la creatura predatrice, partendo dalla fondamentale certezza che sia una cattiva idea fissare gli animali, perché essi tendono a percepire come ostili questi sguardi.
È importante notare che questo film è diviso in capitoli che prendono il nome dai cavalli dell’Haywood Ranch – cavalli che vengono chiamati tramite grandi lettere bianche sullo schermo: Ghost, Lucky e Jean Jacket. Un consiglio: ogni volta che i registi inseriscono qualcosa in lettere giganti sovrapposte alle immagini, probabilmente dovreste leggere quelle parole e cercare di capirle, soprattutto quando sono usate come dispositivo che struttura l’intera narrazione. Nella parte finale del film i personaggi si riferiscono all’alieno come “Jean Jacket”.
La rosa di non umani presenti nel film include, in ordine di apparizione: scimpanzé, cavalli e creature spaziali. Si va dagli animali più vicini all’uomo, dal punto di vista del dna, a quelli più lontani. Ma è ai cavalli – a metà strada nella scala della diversità con gli esseri umani, mammiferi simili e addomesticati ma ancora a quattro zampe e fondamentalmente diversi – che sono dedicati i nomi dei capitoli.
Il film cerca di catturare una sorta di essenza del cavallo, l’ideale platonico rispetto al quale la nostra percezione quotidiana dell’animale è debole e vaga
Non ho mai visto un film che ami i cavalli più di questo. Tutto l’universo visivo del film è stupefacente, realizzato “per un’azione immersiva” dal direttore della fotografia preferito di Christopher Nolan, Hoyte van Hoytema, su pellicola da 65 millimetri con cineprese Imax e Panavision System 65 di grande formato. Ma le immagini dei cavalli, in particolare, sono così eccezionali da far battere il cuore. C’è una straordinaria ripresa notturna che passa in rassegna i cavalli che si muovono inquieti nelle loro stalle buie. La loro estraneità rispetto a noi e la strana bellezza dei loro grandi occhi insondabili e delle lunghe teste, che ondeggiano su loro colli arcuati, hanno un’intensa forza atavica. Il magnifico cavallo bianco che interpreta Ghost, e che continua a uscire dal recinto per sfuggire all’alieno, è filmato in modo ossessivo da Hoytema, che gli corre accanto al galoppo. È come se gli autori del film stessero cercando di catturare una sorta di essenza del cavallo, l’ideale platonico rispetto al quale la nostra percezione quotidiana dell’animale è una mera, debole e vaga “cavallinità”.
“Dì al cavallo che siamo pronti”, dice l’odioso regista di una pubblicità a Oj Haywood, che se ne sta in piedi e tiene le redini del suo cavallo Lucky. L’idea che Oj possa letteralmente parlare a Lucky della preparazione della troupe di un film pubblicitario, e che il cavallo lo capisca, è divertente nella sua assoluta
assurdità, ma è anche una testimonianza del fatto che Oj è in grado di
comunicare più efficacemente con i cavalli che con le persone. Questa qualità finirà per essere la sua salvezza.
È anche un riferimento di sbieco al libro Tell my horse (1938) di Zora Neale Hurston, uno studio antropologico sulla cultura vudù haitiana e giamaicana, con la sua fusione di fisico e spirituale, di umano e animale, un sistema di credenze che è stato continuamente deformato, minacciato e sconvolto dalla colonizzazione. Nope è il genere di film che ti rende attento a riferimenti mediatici collaterali come questo, o a quelli più diretti come le inquadrature del
poster, appeso a un muro, di Non predicare…spara! (1972), un raro “western nero”
hollywoodiano interpretato e diretto da Sidney Poitier.
Nei panni di Oj, il sempre eccellente Kaluuya offre un’emozionante prova di stoico minimalismo. È una di quelle impressionanti prove da grande attore, che dimostra quanto poco possa fare sullo schermo pur tenendotici incollato. Va aggiunto che Kaluuya ha rinunciato al suo ruolo nel sequel di Black panther per recitare in Nope, e per questo merita il nostro plauso.
C’è un’inquadratura conclusiva da “nuovo eroe western” di Kaluuya a cavallo,
parzialmente oscurata dalla nebbia, con alcune note di musica che evocano Ennio
Morricone, che è allo stesso tempo emozionante e inquietante. Il film è visto
attraverso gli occhi di Em, che ha appena fatto un uso inventivo della telecamera per “catturare” l’alieno, come a voler condividere equamente con Oj l’eroismo alla fine del film.
Se da un lato l’inquadratura in soggettiva di Em sul fratello è una sfida alla
rappresentazione razziale storicamente regressiva di questo genere cinematografico, dall’altro sembra puntare oltre. Oj sembra essere la figura giusta per un nuovo di tipo di frontiera che rimescola i confini, non avendo niente a che fare con la conquista, e nel quale trovano posto un vasto cielo misterioso, ma anche paesaggi aspri, e una gamma più ampia di creature animali che entrano in relazione con gli esseri umani.
Nope è un film straordinario, la prova di un sorprendente balzo in avanti nelle già
impressionanti capacità di Peele come sceneggiatore e regista. E, a proposito di
spettacolo, devo rivederlo, questa volta in formato Imax.
(Traduzione di Federico Ferrone)