Dalle interviste mi pare di capire che lo sceneggiatore e regista Danny Boyle ami molto i Sex Pistols. “Dirlo può sembrare un po’ pretenzioso, ovviamente, ma in un certo senso era destino che lo facessi”, ha detto in una recente intervista. “Sapevo che prima o poi avrei dovuto fare un film punk”. Non so bene come conciliare questo senso di predestinazione e Pistol, la serie da sei episodi che Boyle ha diretto per Fx/Hulu sui Sex Pistols, un gruppo dalla vita breve ma dalla grandissima influenza.
Tanto per cominciare, la serie si basa molto sul libro di memorie di Steve Jones del 2017, Lonely boy: la storia di un Sex Pistol. Questo significa tonnellate di materiale sul fatto che Steve Jones (interpretato da Toby Wallace) fosse un ragazzo sensibile, segnato da una misera infanzia operaia, schiacciato da un padre prepotente e nullafacente. E anche moltissimi altri momenti nei quali Jones sembra volere presentare sé stesso come la figura centrale, e per lo più sana di mente, in un gruppo di pazzi e spesso malvagi individui.
Ci sono anche tonnellate di informazioni sulla sua presunta storia d’amore con Chrissie Hynde (Sydney Chandler), prima che questa formasse The Pretenders. Boyle si congratula con se stesso per il modo in cui lui e lo scrittore Craig Pearce hanno finalmente dato il giusto spazio alle donne coinvolte nella turbolenta odissea della band, con dei ritratti insolitamente approfonditi della stilista Vivienne Westwood (Talulah Riley), dell’icona della moda Pamela Rooke in arte Jordan (Maisie Williams), della catalizzatrice del caos Nancy Spungen (Emma Appleton), e soprattutto di Hynde. “Il timore era che fosse una sorta di bomba a orologeria e che, quando fosse arrivata, avrebbe eclissato tutte le altre”, dice Boyle. “Chissà quante altre ragazze sono rimaste frustrate per essere state trattate con poca attenzione, anche se il punk era piuttosto accogliente nei confronti delle donne”.
Visti questi alti propositi di “riparazione” dei torti subiti dalle donne nell’orbita dei Sex Pistols, è divertente riferire che Hynde ha schiettamente obiettato al modo in cui Boyle racconta la sua relazione con Steve Jones: “Me lo sono scopato solo una volta, sai”.
È comprensibile che John Lydon, alias Johnny Rotten – un tempo brillante, ma ormai inoltrato in uno strano percorso mentale che lo ha portato all’esplicita ammirazione per la regina Elisabetta e perfino a un’apparizione nel reality Judge Judy – abbia cercato, senza riuscirci, di ottenere un’ordinanza del tribunale per bloccare la produzione della serie, rifiutandosi di concedere la licenza per la musica. I suoi commenti sulla serie di Boyle appaiono duri ma giusti, e mettono in discussione la descrizione “fiabesca” della storia del gruppo, definendola una “fantasia borghese”.
La serie sembra effettivamente sorprendentemente borghese, e segue la formula consolidata del film biografico, che è, in generale, un genere spregevole che presenta vite incredibili, disordinate e radicali come se seguissero archi narrativi familiari e convenzionali, e che, nel farlo, permette ai registi di vincere dei premi. Nelle biografie di leggende della musica ci sono in genere scene dolorose e prive di immaginazione che raccontano famosi momenti di ispirazione creativa. Queste scene non sono cambiate molto dai tempi della cosiddetta età dell’oro di Hollywood.
Trovato!
Fedele alle tradizioni più dozzinali, Pistol ci mostra costantemente scene fasulle di scrittura di testi e d’invenzione di nuovi nomi per i membri del gruppo, in termini rigorosamente stereotipati che di solito seguono questo schema: un personaggio suggerisce qualcosa di sbagliato, un altro personaggio suggerisce un alternativa migliore, e infine quando si arriva al nome giusto qualcuno urla l’equivalente di “trovato!”.
Nella serie Pistol, Sid Vicious, nato John Simon Ritchie (Louis Partridge), riceve il suo celebre soprannome quando dice al suo amico d’infanzia John Lydon/Johnny Rotten (Anson Boon) che il suo criceto si chiama Sid. Poi si avvicina alla gabbia, si fa mordere e dice: “Sid’s viciuos!”(Sid è cattivo).
Naturalmente, ci sono anche cose positive. La sequenza più esaltante del film mostra Jordan che attraversa la città in bicicletta e prende un treno per Londra per andare a lavorare alla boutique Sex di Westwood, splendidamente punk con la sua maglietta trasparente che le rivela il seno, gli occhi che emergono da audaci strisce orizzontali di trucco nero e i lunghi capelli biondo chiaro che puntano verso l’alto come un’onda aggraziata, una sorta di bambola di troll. Ha un aspetto incredibile e non si lascia intimorire dagli sguardi scioccati e dalle esclamazioni ostili che le vengono rivolte. Per qualche minuto, lo spettatore percepisce il senso delle potenzialità liberatorie del punk. Perché non rifiutare in blocco un mondo fossilizzato? Tutto il giorno, tutti i giorni. Perché non manifestare questo rifiuto nel modo in cui ci vestiamo, parliamo, ci muoviamo, cantiamo, mangiamo, progettiamo, lavoriamo, facciamo l’amore, ci relazioniamo con i sistemi di potere e via dicendo? Perché siamo tutti così educati, attenti e rispettosi?
Se mai c’è stata un’occasione per fare qualcosa di radicale era proprio questa. Ma Danny Boyle si limita al compitino
Ci sono anche delle piacevoli, ma non memorabili, sequenze di montaggio dell’Inghilterra degli anni settanta, come quella in cui la regina Elisabetta celebra il suo giubileo d’argento. I giovani attori che interpretano i Sex Pistols recitano con entusiasmo. Si percepisce una certa gioia nel sentire eseguire canzoni come Anarchy in the UK, God save the queen, Bodies, No fun, e la versione martellante e ululante di My way di Sid Vicious. E sarebbe difficile non emozionarsi un po’ rivedendo la cupa e tragicomica tournée dei Sex Pistols negli Stati Uniti sudoccidentali, e il macabro spettacolo della storia tra Sid e Nancy, con la morte di entrambi, e la rottura finale della band.
Ma nel complesso, la serie è troppo morbida, troppo meccanica, troppo convenzionale. Se mai c’è stata un’occasione gloriosa per fare qualcosa di formalmente radicale, qualcosa di stilisticamente strabiliante, qualcosa che rompesse le regole, era proprio questa: non si sarebbe mai trovato un soggetto migliore. Ma Danny Boyle si limita al compitino, presentando Steve e i suoi primi compagni del gruppo, Paul Cook (Jacob Slater) e Glen Matlock (Christian Lees), mostrando poi i suoi primi fatidici incontri con Vivienne Westwood e Malcolm McLaren (Thomas Brodie Sangster), e facendo quindi entrare in scena John Lydon, eccetera, eccetera, eccetera.
Un indignato moralismo
McLaren è rappresentato come un figlio del demonio con la faccia da folletto e i capelli ricci, il cui malvagio sfruttamento della band che ha contribuito a creare ha portato quest’ultima alla rovina, mentre la sua consorte Westwood è liquidata come una fredda scocciatrice di sinistra, sempre pronta a spiegare a tutti quali sono gli atteggiamenti rivoluzionari corretti. Anche se questi sono aspetti della verità, non è una narrazione interessante: i Sex Pistols non erano una band di angeli, e appare quindi assurdo introdurre delle banali figure di cattivi a cui dare la colpa di tutto.
La serie è caratterizzata da uno strano e indignato moralismo. Verso la fine di Pistol, quando Sid Vicious diventa una figura dominante nella band e si preoccupa di avere i capelli sufficientemente a punta, il musicista riprende le parole di McLaren e dice che, per i Sex Pistols, “quel che conta è l’aspetto”.
C’è davvero tanta moralità borghese nello stupido binomio apparenza/realtà in cui cade Pistol
La scena lascia presagire che la terribile dimostrazione di superficialità di Sid segni l’inizio della fine del gruppo. Ma perché? Il look della band, curato da Westwood e McLaren, è sempre stato di vitale importanza per il suo impatto. La sorprendente autorappresentazione dei punk rocker era fondamentale per la loro sfida all’intero ordine prestabilito, che condannava i giovani della classe operaia come loro a uno stato permanente di “no future”.
La gente ha adottato i capelli alla moicana, le magliette strappate, le spille da balia, i piercing sulla pelle e un trucco che le rendeva irriconoscibili proprio perché l’aspetto è importante. C’è davvero tanta moralità borghese nello stupido binomio apparenza/realtà in cui Pistol ricade alla fine! Oscar Wilde si starà rivoltando nella tomba, ridendo della cosa.
Tanto varrebbe tormentarsi su quanto sia stato terribile che i Sex Pistols siano diventati un gruppo importante anche se la maggior parte di loro non era un musicista preparato o affermato. Steve Jones e Sid Vicious erano a malapena in grado di suonare i loro strumenti, e Johnny Rotten cantava in modo stonato.
Ma Pistol sembra ossessionato proprio da questo aspetto, in modo del tutto convenzionale, episodio dopo episodio, incapace di dimenticarlo anche quando i Sex Pistol trovano un loro impetuoso stile, suonando in modo straordinario. Johnny Rotten è descritto come se fosse tormentato dalla sua presunta brutta voce, mentre Steve Jones si vergogna di non saper suonare “correttamente”, e ripete a Chrissie Hynde quanto lei meriterebbe molto di più il successo, perché sa “davvero” suonare e cantare.
Sembra che Boyle abbia messo in scena le potenzialità liberatorie e rincuoranti offerte dal fenomeno Sex Pistols solo per il macabro piacere di affossarle alla fine. In un ultimo incontro malinconico e fantastico con Steve Jones, Johnny Rotten dice che, quantomeno, gli resterà sempre il ricordo di un’esibizione gioiosa e redentrice del gruppo: un concerto di beneficenza, il giorno di Natale, per i figli dei pompieri in sciopero della città di Huddersfield. I quattro membri del gruppo hanno affrontato questa esibizione dal vivo con allegria, ballando con i bambini sulle note dei successi disco dell’epoca, distribuendo materiale promozionale, lanciandosi torte in faccia a vicenda e poi esibendosi in un breve concerto.
È un flashback toccante, quello dei Pistols che sostengono gli “eroi della classe operaia” e i loro figli, eliminando tutte le loro parolacce per non disturbare in alcun modo i bambini. Ma la serie lo presenta come se i Sex Pistols avessero compiuto un’unica buona azione in una carriera breve e sprecata, il che sembra esattamente la nota sbagliata con cui concludere.
Per come lo ricordo io, il punk ispirato ai Sex Pistols era una meraviglia di potenzialità positive. Ricordo che, da studente, frequentavo il locale punk della mia zona: una disadattata totale, con i miei assurdi vestitini inconsapevolmente puritani, totalmente accettata per quello che ero, in un modo che può essere attribuito solo a princìpi fortemente radicati. Ricordo ancora i punk come un modello di tolleranza in un mondo tristemente intollerante. E credo che meriti un omaggio migliore di questo.
Guardate Oscenità e furore (2000), il “rockumentary” di Julien Temple sui Sex Pistols. È un film che dimostra il giusto grado di affetto per quello scabroso e meraviglioso gruppo.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin Magazine.
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