Il notevole debutto alla regia dell’attore B.J.Novak, Vengeance, vede uno scrittore di Brooklyn partire per il Texas occidentale con l’obiettivo di trasformare il dolore di una famiglia in un podcast. È una satira che rivela la realtà della nostra epoca come nessun altro sa fare.
B.J. Novak, noto soprattutto per essere coautore e attore della serie comica The office, ha esordito come sceneggiatore-regista-attore principale nel film Vengeance, prodotto dalla Blumhouse productions. Il film mi è piaciuto, in buona parte. Ma devo dire che ero stanca, alla ricerca di un intrattenimento leggero, e ancora sotto lo straordinario effetto del nuovo film di Jordan Peele, Nope, in sala nello stesso cinema. La coda era tutta per vedere Nope, il che mi ha permesso di avere una sorta di proiezione privata.
Vengeance sembra cominciare come una dark comedy di poche pretese, la storia di uno scontro tra culture opposte, quella tra New York e il Texas. La prima scena del film mostra due insopportabili narcisisti del mondo dei media a una festa – Novak interpreta Ben Manalowitz, uno scrittore del New Yorker che vive a Brooklyn, mentre il musicista John Mayer, amico di Novak nella vita reale, interpreta l’amico di Ben – che non smettono di controllare il telefono e continuano a interrompersi a vicenda. L’argomento della conversazione è il fatto che il loro non avere legami con niente e nessuno sia in realtà un ammirevole modo per massimizzare le straordinarie possibilità offerte dalla vita. È uno scambio ironicamente scandito dal loro ripetere in continuazione “al cento per cento”, che denota una determinazione totale, assoluta.
Quel che segue è la storia di come Ben sia costretto a trascorrere del tempo in una sperduta zona del Texas occidentale, dopo la morte di una delle tante ragazze che frequentava, apparentemente per overdose. Il fratello di lei, distrutto dal dolore, Ty Shaw (impersonato da Boyd Holbrook), ritenendo che Ben fosse il suo ragazzo, fa leva sul senso di colpa per obbligarlo a partecipare al funerale.
Teorico del complotto, Ty è convinto che sua sorella Abilene “Abby” Shaw (Lio Tipton), descritta come una persona talmente morigerata che “non avrebbe preso neppure un’aspirina”, non possa essere morta per un’overdose, e deve quindi essere stata uccisa, forse da un cartello di narcotrafficanti messicani. Ripartendo dopo il funerale in un pick-up, armato fino ai denti, Ty prega Ben di aiutarlo a “vendicare” la morte di Abby. Sconvolto dalla proposta, ma cercando di mantenere la calma, Ben cerca di tirarsi fuori dicendo che uno dei limiti etici che si è imposto è quello di non vendicare la morte delle persone.
Aggiunge anche di non aver l’abitudine di comportarsi come se fosse in un film di Liam Neeson, riferendosi ai film d’azione pieni di armi e sparatorie, di cui è specialista l’attore. Ma Ty lo riassicura: “E invece sembri proprio un personaggio di un film di Liam Neeson. Qual era il titolo? Ah sì, Schindler’s list!”.
Secondo Sellers il problema del Texas rurale profondo è che straripa di creatività ma la gente non sa che farsene
A quel punto Ben si accorge che quella potrebbe essere la sua opportunità di proporre un nuovo e sensazionale podcast a Eloise (Issa Rae), una produttrice di alto livello che, a New York, aveva accusato Ben di essere troppo chiuso nei suoi pensieri, e che doveva lavorare un po’ più con il cuore. Il risultato è Dead white girl – “il sacro Graal dei podcast” – concepito con cinismo per sfruttare l’interesse del pubblico sia per gli omicidi irrisolti sia per storie teoricamente autentiche di colore locale, che presentano personaggi reali degli Stati Uniti profondi.
Arrivato nel Texas rurale, Ben è il classico pesce fuor d’acqua, perso in una cultura che non capisce e che disprezza. Solo che non ha nessuno con cui scambiare sguardi ironici in quelle pianure desolate. Inevitabilmente, mentre trascorre del tempo con la famiglia di Abby e intervista le persone del posto sulla vita e la morte della ragazza, Ben vede crollare una dopo l’altra le sue superficiali convinzioni sugli stati repubblicani, che si fanno sempre meno scontate mano a mano che conosce persone. Questa parte della trama, anche se prevedibile, è spesso piuttosto divertente, e si basa sulle esperienze reali dello stesso Novak, che ha viaggiato in lungo e in largo nel Texas rurale per fare ricerche per questo film: “Pensavo che questi grossi tizi con barbe e camioncini pick-up sarebbero stati molto sospettosi nei confronti di un tizio democratico di Hollywood, ma la realtà è stata totalmente l’opposto”, dice. “È la cultura più accogliente che abbia mai conosciuto. Sono andato a cene di Pasqua e le persone mi mostravano le poesie che avevano scritto”.
Il senso di colpa di Ben, che a malapena ricordava il nome completo di Abby, e l’attenzione e la gentilezza che gli tributa la famiglia della ragazza, cominciano a intaccare il suo senso di superiorità cittadino. E le sue idee superficiali crollano definitivamente quando incontra Quentin Sellers (un Ashton Kutcher sorprendentemente efficace), un uomo dai modi raffinati che indossa un cappello Stetson e la cui casa discografica prende il nome dalla Factory di Andy Warhol. La loro prima conversazione ricorda un momento di Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) di Mel Brooks, quando il riluttante sceriffo nero (Cleavon Little) di una rozza città bianca del west incontra il pistolero erudito Waco Kid (Gene Wilder) che gli chiede “cosa fa un signorino come te in questa cittadina da quattro soldi”.
Secondo Sellers il problema del Texas rurale profondo è che straripa di creatività, ma la gente non sa che farsene, e questo finisce per generare una follia domestica e una mitologia fantastica che alimenta divisioni culturali. Sellers sembra svolgere, come portavoce apparentemente ecumenico della sua regione, un lavoro migliore di Ben, che si è autoattribuito il ruolo di teorico e autore di podcast che spiegheranno gli Stati Uniti a loro stessi.
Il film si fa più cupo quando la teoria complottistica di Ty sull’omicidio di Abby comincia a sembrare sempre più realistica. E alla fine del film, che cerca di diventare rapidamente più profondo, con un’improvvisa esplosione di scambi filosofici, seguiti da una conclusione violenta, la domanda è: B.J. Novak è riuscito a fare il film che voleva?
Per me, non c’è riuscito. Ma va bene: è il primo tentativo di un film per il cinema da parte di questo veterano delle televisione. Novak è abbastanza divertente e satirico in un’epoca in cui la satira furiosa e la dark comedy dovrebbero essere la regola e non l’eccezione: merita di poterci riprovare.
( Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin Magazine.
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