L’apprezzatissima serie di Hulu, The bear, racconta di un giovane chef di nome Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White, già visto in Shameless) che cerca di mettere la sua esperienza nei ristoranti di lusso al servizio del salvataggio della tavola calda italiana della sua famiglia. Mentre cerca di convincere i componenti del suo insofferente personale di cucina a chiamarsi reciprocamente chef in segno di rispetto, e mentre impazzisce per le bollette non pagate, le liti familiari, i fornelli sporchi e i coltelli non affilati del ristorante, deve fare i conti con il comportamento recalcitrante di tutti quelli che lo circondano.
L’impiegata di più vecchia data di The Beef, come si chiama il locale, è la coriacea Tina (Liza Colón-Zayas), una cuoca ferocemente legata a una gestione vecchio stile del ristorante. Il ruvido Richard “Richie” Jerimovich (Ebon Moss-Bachrach, già interprete di The punisher), che Carmy chiama “cugino” in un modo da enfatizzare il peso dei legami familiari, è quello più invidioso del protagonista, e di conseguenza il più contrario a qualsiasi suo tentativo di cambiare le cose.
Solo la recluta più recente di Carmy, Sydney Adamu (Ayo Edebiri), ben preparata e pronta a prendere il suo posto come vicechef, ne riconosce il grande talento e sostiene la sua titanica e apparentemente insormontabile impresa. Pure lei si prende la sua dose di risentimento tra i cuochi. Mentre il giovane e dolce Marcus (Lionel Boyce, del gruppo hip hop Odd Future) sembra desideroso di migliorare le sue prestazioni culinarie e diventare capo pasticcere.
Le ragioni dietro all’ossessione di Carmy per il salvataggio del ristorante emergono solo gradualmente, dopo diversi episodi. Carmy ha infatti ereditato l’attività dal fratello Michael “Mikey” Berzatto (Jon Bernthal, visto in The punisher e The walking dead), che si è suicidato. Il modo in cui la sua famiglia vive il lutto è fin troppo comune: evitando del tutto l’argomento, mostrando un risentimento che ribolle sotto la superficie, trovando momenti di comunione grazie a occasionali sprazzi di umorismo nero e, periodicamente, scagliandosi furiosamente l’uno contro l’altro.
Si scopre così che Mikey teneva nascosta la sua tossicodipendenza oltre all’enorme debito nei confronti dello zio Cicero (Oliver Platt, qui in una grande interpretazione comica), due cose che esplodono come una serie di bombe emotive nel già scombussolato clan Berzatto.
Missione chiara
Mentre l’esausto Carmy passa ore e ore, dopo l’orario di chiusura, a pulire fanaticamente i piani cottura ricoperti di grasso incrostato e i pavimenti anneriti da graffi e sporcizia, la sua missione appare chiara: vuole salvare non solo se stesso da una vita fatta di salari bassi, squallore, risentimento e fallimento, ma tutta la sua famiglia. Si tratta di un obiettivo che conoscono bene le persone molto ambiziose provenienti da famiglie traumatizzate, una categoria a cui appartengono in molti. Queste tendono, per salvarsi, ad abbandonare i loro parenti oppure a coinvolgere tutti quanti in un folle e difficilissimo tentativo di raggiungere il successo e di scalare le classi sociali. Carmy prova entrambi i metodi: prima la diserzione (questo l’antefatto), poi l’elevazione del clan (questo il cuore della serie). Ed entrambi i metodi generano un risentimento rabbioso.
Lo sceneggiatore e regista della serie Christopher Storer (produttore di Eighth grade – Terza media, regista degli speciali del comico Bo Burnham e di molte altre commedie) sa benissimo quanto questo compito sia impossibile, ed è per questo che The bear risulta una visione tanto piacevole quanto angosciante. Originario di Park Ridge, un sobborgo di Chicago, e assiduo frequentatore di un vecchio ristorante chiamato Mr Beef, che ha ispirato la serie, Storer ha lavorato con gli chef per evitare di commettere i tipici errori dei “film di merda su chef e ristoranti”. Voleva fare una serie sui particolari più crudi dei mestieri della ristorazione, “su quanto siano difficili”, sulla quantità di doti, dedizione, tempo e denaro che sono richieste ai proprietari e ai lavoratori del settore: “C’è qualcosa nei ristoranti che appare insostenibile fin dall’inizio… Non so dirvi quanti chef mi hanno detto: ‘Oh sì, la sera dell’inaugurazione è esploso un gabinetto’. Oppure il lavandino non funzionava. O cose del genere. Il saper cucinare? È solo una delle cento abilità necessarie a gestire un locale”.
Storer ha insistito soprattutto nell’affrontare un argomento che tende a essere evitato nei film e in televisione: la gestione economica.
“Anche quando si è nel processo di sviluppo di una serie, per qualche motivo ho scoperto che le persone sono molto reticenti a parlare di soldi. Continuavamo a dire che era un aspetto secondario, ma in realtà è un fatto gigantesco, cento ore di lavoro fanno una differenza enorme per un’attività. Continuavo a pensare: ‘Non possiamo fare questa serie senza parlarne. Non si può fare questa serie senza parlare di quanto siano onnipresenti le questioni economiche’”.
Ma se non siete tra quanti si fanno catturare dal gancio emotivo alla base della serie, il fascino della ristorazione e della cucina non saranno sufficienti, e l’intera serie potrebbe non dirvi nulla di speciale. Oltre alle molte lodi espresse per The bear sui social media, ho già letto alcuni pareri negativi delle persone che non riescono davvero ad appassionarsi. Alcuni non riescono a tollerare lo stress della serie, forse perché hanno lavorato loro stessi in ristoranti ad alta intensità (ed è comprensibile, la maggior parte degli episodi è piuttosto snervante).
C’è una spinosa questione di classe insita nella serie, a proposito dei rischi che corrono i lavoratori che diventano “proprietari”
Altri si chiedono perché la serie drammatizzi così tanto quello che accade in un ristorante in difficoltà (la risposta è perché questo è il problema più grande per il protagonista, che sta rischiando tutto, o per il gruppo di persone che dipende dal ristorante per il proprio sostentamento e per buona parte del suo amor proprio). E poi ci sono quelli che lo liquidano come l’ennesima serie culinaria maschilista (uno dei commenti più divertenti recita “il cazzo del cuoco fa un’altra vittima”).
In effetti non mi sono mai interessata ai programmi di cucina, anche se me li propongono regolarmente, e quindi mi sono persa il fenomeno dei vari Anthony Bourdain: no reservations, Top chef, Iron chef, Hell’s kitchen e The great british baking show. Non mi interessano particolarmente i dettagli specifici della ristorazione di The bear, anche se li trovo altamente cinematografici e avvincenti in questa serie.
Una metafora più ampia
Quel che m’interessa è proprio The bear, l’orso: quello del titolo fa riferimento a un incubo nel quale Carmy affronta un feroce esemplare nero, scappato dalla sua gabbia, e che rappresenta una sua giornata media, da infarto, nel ristorante di famiglia. È una metafora più ampia delle sfide mortali che un lavoratore deve affrontare quando cerca di realizzare qualcosa di ambizioso che, di norma, richiede molto denaro, un’istruzione superiore, contatti sociali e un approccio alla vita stabile, fiducioso e privo di rischi. Tutte cose generalmente appannaggio delle classi più alte.
E c’è una spinosa questione di classe insita nella serie, a proposito dei rischi che corrono i lavoratori che diventano “proprietari”, anche se di piccole attività: senza un comodo cuscinetto finanziario, è una posizione quasi impossibile da sostenere. Come per l’acquisto di una casa, si scoprono gli enormi costi di manutenzione e riparazione solo quando si è già speso quasi tutto quello che si aveva per l’acquisto iniziale. E così, nel caso della famiglia di Carmy, sembra molto più il ristorante a possedere loro, in un modo punitivo, che non il contrario.
Tutto è cominciato nella famiglia Berzatto con il defunto padre di Carmy, descritto come un sognatore inconcludente che aveva sempre un’idea nuova e fantastica su come sfondare, una sorta di Ralph Kramden della serie The honeymooners. L’acquisto del ristorante è stato un sogno che aveva cercato di trasformare in realtà, ma i risultati sono così tristemente precari che Natalie “Sugar” Berzatto (Abby Elliott), sorella di Carmy, rimane sconcertata quando Carmy subentra al defunto Mikey nella gestione del locale.
Storer racconta di aver infuso la sua personale esperienza di “ansia e terrore” nel racconto di un ristorante a conduzione familiare: “Da ragazzo, il mio ambiente familiare era un po’ malsano. Nella mia famiglia c’erano malattie mentali e dipendenze. Continuo ad andare alle riunioni degli alcolisti anonimi… Ho notato alcuni degli stessi pensieri che provavo per la mia famiglia in molti ambienti di lavoro tossici. Nessuno fa apposta, almeno credo, a creare un ambiente di lavoro malsano”.
Ma la serie riesce anche a raccontare il modo in cui i nuclei familiari più disfunzionali possano essere tenuti insieme da abitudini, stranezze e preferenze condivise, inesistenti altrove in una combinazione così particolare. I pasti “di famiglia” di tutto il gruppo preparati nel ristorante dopo la chiusura incarnano quel genere di miracolosa distensione che si verifica nelle famiglie più in crisi. “Avevamo un mucchio di cose che non funzionavano”, racconta Storer della sua famiglia. “E il cibo era la cosa che ci teneva insieme”.
Ma per quanto possa diventare cupa, dà un innegabile brivido nel guardare una serie così profonda parlare di un’impresa così folle: lavoratori messi a dura prova dalla vita che tentano di fare qualcosa di grande e non sopportano l’imposizione di nuovi e più elevati standard professionali.
Chiunque ci abbia provato, anche solo per un breve periodo, sa quanto sia difficile e quanto sembri che tutto sia contro di te. Lo sguardo spento di Carmy, la sua stanchezza, gli errori di valutazione quando fa i conti con una marea di problemi imprevisti, il senso di colpa per aver trascurato le sue relazioni familiari, unito alla rabbia per le pressioni emotive che continuano ad aggiungersi alla sua lunghissima lista di faccende da sbrigare, i controlli furtivi per vedere se realmente soffra di attacchi di cuore, sono tutti elementi raccontati con l’occhio di un grande osservatore.
E anche i minuscoli successi risultano tremendamente toccanti, come il fatto che i cuochi sviluppino gradualmente l’abitudine di chiamarsi a vicenda chef. Ci fa pensare a quanta differenza possa fare, per il nostro benessere, una piccola dose di rispetto in una società follemente irrispettosa. I socialisti, quantomeno, hanno l’appellativo “compagno”, che è più di quanto la maggior parte delle persone che sgobbano per tutta la vita possa ottenere.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin Magazine.
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