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Babylon è così brutto da far venire il mal di testa

Babylon. (Paramount Pictures)

Babylon, l’ultimo film del regista Damien Chazelle (First man, La la land, Whiplash), mi ha disgustata a tal punto che, quando dopo tre ore e otto minuti ha finalmente smesso di prendere d’assalto i miei sensi, non sono riuscita a uscire subito dal cinema.

Non perché il ritratto della decadenza dell’industria cinematografica negli anni venti che Chazelle cerca di sbatterci in faccia sia scioccante. Non lo è: il regista adotta il tono di un idiota di provincia che ha appena scoperto che le feste di Hollywood possono diventare piuttosto sfrenate e non riesce a farsene una ragione. Me ne sono rimasta seduta in sala perché Chazelle ha realizzato un film di una tale incompetenza che cercare di comprenderlo fa venire il mal di testa.

L’opera è così brutta visivamente che non riesce a restituire nulla della California del sud di quel periodo, un paradiso mitigato dall’oceano e profumato dagli alberi d’arancio che spinse il genio della commedia anni venti Buster Keaton – per niente incline al linguaggio poetico – a dire con rispetto: “L’aria in California era come il vino”.

Due visioni opposte
Molte foto del giovane Keaton e delle spensierate star del cinema degli anni venti – Gloria Swanson, Rodolfo Valentino, Clara Bow, John Gilbert, Douglas Fairbanks, Louise Brooks – mostrano non solo la gioventù carismatica e l’abbigliamento esuberante e bizzarro dell’epoca, ma anche l’euforia dovuta all’improvvisa ricchezza, all’agio e alla libertà sessuale in paesaggi assolati e dall’orizzonte aperto. A cent’anni di distanza quelle immagini hanno ancora una carica erotica.

Il film di Chazelle, stranamente antisensuale, insiste così tanto sulle qualità opposte che all’inizio sembra avere come obiettivo quello di smerdare le origini di Hollywood nel modo più letterale possibile. La prima scena – che vede la faticosa consegna di un elefante come intrattenimento esotico durante una festa simile a un’orgia nella villa di un produttore in cima a una collina, e che culmina con l’animale terrorizzato che defeca direttamente sulla macchina da presa – pare alludere in modo sottile a questo intento. Una volta arrivati alla festa, una giovane attricetta che urina su un attore nudo e obeso – forse alludendo al comico Fatty Arbuckle, il quale ridacchia in modo infantile che “gli fa il solletico” – rende chiaro che la festa, che si presumeva sexy, non sarà più così piacevole da guardare. È tutto estremamente sgradevole.

Di certo Chazelle non ha il talento necessario a catturare la magia dei migliori film muti

Sebbene Margot Robbie, nei panni di Nellie LeRoy (un’attrice che ci dà dentro con i bagordi e che ha alle spalle una storia di straziante povertà, chiaramente ispirata a Clara Bow), si contorce con tutte le sue forze in mezzo a una folla di festaioli altrettanto innaturali, risulta eccitante da guardare quanto un allenamento di gruppo della Young men’s christian association. Anche in questo caso, le inquadrature che seguono i protagonisti del mondo dello spettacolo mentre ballano e si dimenano come bestie in calore, sembrano voler sottolineare che si tratta di un ambiente per nulla intrigante. Ma mentre Babylon va avanti, e l’avvento del sonoro distrugge molte carriere e rende sempre più tesa e irreggimentata l’atmosfera turbolenta del set cinematografico, l’insistenza sulla Hollywood del cinema muto come “il luogo più magico che sia mai esistito”, come sostiene Jack Conrad, un attore famoso interpretato da Brad Pitt, rende difficile capire dove voglia portarci Chazelle. Dovremmo pensare “Sì, è davvero magico!” oppure “Ma lo era davvero?” o forse sentirci combattuti tra le due opzioni, o cos’altro ancora?


Di certo Chazelle non ha il talento necessario a catturare la magia dei migliori film muti. A differenza del cinema più riuscito degli anni venti, le sue inquadrature fanno pena e la sua illuminazione è confusa. L’abbraccio appassionato tra un personaggio interpretato da Jack Conrad e la sua donna ideale, che in teoria dovrebbe rappresentare l’apice dell’effetto creato dal cinema muto quando ci mostra divi e dive in preda al romanticismo, è girato in modo così incompetente che ancora una volta mi sono chiesta se non fosse una scelta di Chazelle per far sembrare degli stupidi i personaggi del film che mostrano un fervore quasi religioso per il cinema.

La cosa peggiore è che Chazelle trascura un espediente ovvio per evocare in maniera accurata la magia del cinema muto: il nitrato d’argento delle vecchie pellicole, che le rendeva così pericolose perché facilmente infiammabili, faceva anche brillare e risplendere le immagini, conferendogli un’incredibile bellezza fiabesca che il regista non riesce assolutamente a catturare. Forse non sa che è possibile imitare quasi tutte le atmosfere cinematografiche con un aggeggio moderno chiamato computer.

Carriere tratteggiate
L’assenza di magia rende anche difficile empatizzare con il dolce e ingenuo Manny Torres (Diego Calva), l’umile fattorino di Hollywood che ha aiutato a consegnare l’elefante. A prescindere da quanta sia la merda che sta piovendo, Manny guarda comunque Hollywood con occhi adoranti. È un outsider messicano-americano che sogna di far parte di qualcosa di grande, come il cinema, e quando chiede di poter lavorare a qualunque titolo su un set, gli viene risposto con disprezzo: “Occupi già il posto che ti meriti”.

Ma nella caotica atmosfera delle feste hollywoodiane, che domina anche il duro ambiente del set, tutto è possibile, compreso – nel caso di Manny – diventare all’improvviso amico di Conrad, la grande star, accompagnandolo a casa dopo il baccanale della sequenza d’apertura. LeRoy incontra la sua grande occasione alla medesima festa e i due cominciano la loro ascesa parallela verso le vette di Hollywood, Manny come produttore e dirigente cinematografico, e Nellie nel ruolo della “bambina selvaggia”, basato sugli eccessi da viveur che alla fine la distruggeranno.

Sono poi tracciate altre carriere, sebbene in modo molto sommario. Li Jun Li interpreta Lady Fay Zhu, un incrocio tra la star del cinema sino-americana Anna May Wong e Marlene Dietrich, le cui performance di erotismo lesbico vengono accolte nei ruggenti anni venti e abbandonate nei sempre più moralisti anni trenta. Jovan Adepo veste i panni di Sidney Palmer, un trombettista nero di una jazz band che suona nelle selvagge feste di Hollywood, e mentre Torres tenta di produrre un musical nel primo periodo del sonoro gli dice: “Credo tu abbia puntato la macchina da presa nella direzione sbagliata”. Palmer diventa una stella del musical, finché il razzismo sempre più diffuso non gli rende insopportabile l’industria cinematografica.

Jean Smart è una gradita presenza nel ruolo della giornalista di gossip Elinor St. John, chiaramente ispirata alla romanziera e sceneggiatrice Elinor Glyn. St. John è una degli “scarafaggi” che riescono a rintanarsi nell’ombra, come dice lei, e a sopravvivere agli sconvolgimenti culturali e ai cambiamenti del settore che affossano le star. Effettivamente Smart evoca lo stile e la parlata degli anni venti, a differenza della maggior parte degli attori del film (anche se Brad Pitt dimostra ancora una volta di saper trasmettere piuttosto bene la mascolinità dell’epoca). Ma non è colpa loro: è probabile che Chazelle abbia volutamente fatto in modo che quasi tutti gli altri personaggi avessero un aspetto e un comportamento contemporanei, lasciando ai titoli di testa il compito di annunciare il periodo storico che si suppone sia rappresentato. Margot Robbie, in particolare, ha i capelli, l’abbigliamento e i modi di fare di una donna del 2022 in quello che dovrebbe essere il 1926. Ancora una volta, non ho idea di cosa Chazelle stia cercando di ottenere: il regista sostiene di essersi documentato parecchio sull’epoca, di aver visto molti vecchi film e di aver guardato tante vecchie foto, quindi è possibile che tutto questo faccia parte del suo progetto confuso.

Il giornalista David Sims, nel tentativo di capire se Chazelle abbia partorito o meno un capolavoro, scrive che l’obiettivo del film è questo: “La scena dell’elefante che defeca sulla macchina da presa, piena di immagini meravigliose e orripilanti, si fa attendere troppo. E definisce perfettamente il tono dell’ignobile lettera che Chazelle indirizza all’era del muto hollywoodiano, una pellicola sfarzosa di oltre tre ore di dissolutezza, squallore generale e straripante magia cinematografica che dà fuoco al settore e invita il pubblico a ballare intorno al falò. Per una grande casa di produzione proporre un progetto del genere al giorno d’oggi è una mossa audace, dal momento che i grandi budget di solito sono elargiti ai supereroi, e la sontuosa condiscendenza di Babylon probabilmente scoraggerà molti spettatori. Ma Chazelle sta cercando di metterci davanti al fatto che, dietro le quinte, la magia del cinema è sempre andata di pari passo con lo sfruttamento, l’abuso e la malvagità”.

Per raccontare una verità così semplice e ovvia, però, non serve sperperare grandi quantità di denaro, far perdere tempo a tutti e combinare un pasticcio del genere. Mandate un tweet, per l’amor di Dio, o un sms da ubriachi ai vostri amici più tolleranti.

Alla fine diventa più chiaro che in realtà Chazelle sta cercando di pagare un tributo alla grandezza del cinema, anche se, dal suo punto di vista, il cinema sta crescendo come un fiore appariscente sopra un enorme letamaio. E dà vita a quello che probabilmente è il montaggio più brutto, con meno ritmo e più intorpidito dal punto di vista emotivo nella storia del cinema, un guazzabuglio di spezzoni di film molto apprezzati, montati insieme senza una ragione o una logica distinguibile. Poi sterza su colpi di luce e colori vorticosi, per rappresentare l’essenza dei film in quanto tali, credo. È un espediente da scuola di cinema davvero imbarazzante, che vuole passare per profondità da cinema d’avanguardia.

Questa pellicola è così imperdonabile che spero davvero Damien Chazelle abbia raggiunto l’apice dell’ascesa hollywoodiana e cada bruscamente nella fogna della sua carriera per non firmare mai più un’altra pellicola. Dopo Babylon, sarebbe la giusta punizione.

(Traduzione di Davide Musso)

Questo articolo è uscito sulla rivista statunitense Jacobin.

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