Tár è un film impantanato su se stesso
L’elogiatissimo film drammatico Tár è scritto, diretto e prodotto da Todd Field. Nella sua lunga carriera di attore e produttore, Field ha diretto solo tre film, due apprezzate opere drammatiche – In the bedroom del 2001 e Little children del 2006 – e oggi, a distanza di sedici anni, Tár, che si preannuncia come quello accolto con più entusiasmo.
Il film è splendidamente girato in eleganti toni neutri, e sceglie un approccio lento, riflessivo e attento ad argomenti controversi. Protagonista è la sempre elegante e convincente Cate Blanchett, che interpreta con un tour de force il ruolo di Lydia Tár, una compositrice e direttrice d’orchestra di fama internazionale. La carriera e la vita privata della donna implodono quando le accuse di abusi nei confronti di studenti e personale – nonché di adescamento sessuale di giovani donne in cambio di promozioni nell’orchestra – portano alla sua “cancellazione”.
Il film ha ottenuto le candidature agli Oscar per Blanchett e per Field. E Tár stesso ha seguito le orme di In the bedroom e Little children, ricevendo la candidatura come miglior film.
Quindicimila calorie
Io l’ho detestato. Tár si apre su una solenne schermata nera, poi il titolo appare in lettere bianche pomposamente minuscole, con l’accento sulla a così piccolo da essere appena visibile. Dopo venti secondi, mentre guardavo quel carattere microscopico, ho pensato: “Odio questo film”.
Ma ovviamente era un po’ prematuro. E così sono rimasta seduta per le restanti due ore e trentotto minuti, cercando con pazienza di capire questo dannato film. Se non avessi portato con me quindicimila calorie in caramelle di Halloween non ce l’avrei mai fatta. La mia rabbia è cresciuta talmente che sono riuscita a sopportare il film solo mangiando senza sosta bastoncini alla fragola e pensando a modi fantasiosi per uccidere lo scrittore-regista-produttore Todd Field.
Tár è l’esempio di un certo tipo di creazione avvolta nel cachemire così ambiziosa, così curata, così di classe, che la gente automaticamente la venera
Devo ammettere di avere una lunga e tormentata storia con il cosiddetto cinema d’autore. Sono diventata una cinefila molto giovane, il che significa che sono stata seriamente istruita da cinefili più anziani a coltivare il culto di un accanito snobismo cinematografico, una fase che fortunatamente ho superato. Poi ho seguito un master di cinema, niente di peggio per sprofondare di nuovo in quella visione del cinema inutilmente snob e senza vita.
Ho proseguito con un periodo di produzione di film indipendenti, un altro ambito dove l’artisticità più snob tende a dominare. Sono stata a decine di festival cinematografici, ho visto circa cinquantamila film d’autore e non provo più alcuna venerazione per questo tipo di cinema. Un certo numero di film è ottimo, o almeno interessante. Ma non lasciatevi ingannare dalla bella fotografia: hanno la stessa probabilità di essere orribili del più disprezzato film di genere mai sfornato da un sistema implacabilmente commerciale.
Tár è l’esempio di un certo tipo di creazione avvolta nel cachemire così ambiziosa, così curata, così di classe, che la gente automaticamente la venera. Quello che non li farebbe innamorare in una pubblicità di automobili o profumi dall’aria snob, diventa oggetto di adorazione quando è presente in un evento artistico di alta cultura.
L’ultimo film di Field crea confusione perché induce di tanto in tanto a pensare che si tratti di una critica a quel mondo. La scena d’apertura è una lunghissima intervista con Lydia Tár, condotta dal veterano scrittore del New Yorker Adam Gopnik, che interpreta se stesso in modo fin troppo convincente. L’intervista si svolge in uno di quegli spazi eleganti, dai soffitti alti e dal legno lucido, dove le persone benestanti vanno a venerare le arti. Un pubblico estasiato osserva. E il tono dell’intervista è così pretenzioso, così ossequioso, così incredibilmente banale, da poter essere scambiato senz’altro per una satira feroce.
L’inizio della caduta
L’intervista mostra Tár all’apice della sua arroganza, circondata da ammiratori con gli occhi sgranati, e grondante autostima. In realtà è l’inizio della sua caduta, e il film sembra parlare di come l’aver seguito le “regole” che governano il successo nel mondo della musica classica l’abbia portata alla distruzione. Queste regole create dall’uomo sono di natura grossolanamente opportunistica – come nel caso del sesso in cambio di una promozione – ma sono sottaciute nello scintillante mondo delle sale da concerto, degli abiti su misura cuciti a mano, dell’alta cucina cosmopolita e della venerazione retorica per la musica come forma d’arte sofisticata.
Tár e sua moglie Sharon Goodnow (Nina Hoss), che è anche il primo violino dell’orchestra berlinese diretta da Tár, hanno avuto le loro difficoltà di carriera, soprattutto quando hanno fatto coming out, rivelandosi come coppia lesbica in quel mondo ultraconservatore. Ma la loro volontà di rispettare comunque le corrotte “regole” patriarcali gli farà pagare il prezzo quando le azioni con cui hanno costruito la loro identità sono denunciate come trasgressioni violente di cui sono vittime le generazioni più giovani, che ne hanno abbastanza di queste “regole” dell’ambiente.
Il film ha il ritmo dei movimenti dei ghiacciai durante l’era glaciale, ma il vero problema è la sua assoluta opacità nei confronti del suo soggetto, al di là dell’ovvia ammissione che le cose sono “complicate”. Osserviamo Lydia Tár in scene in cui il suo comportamento è terribile (insensibile nei confronti dei vicini, manipolatrice ed egoista con la sua assistente Francesca e altri colleghi), e in scene in cui il suo comportamento è amorevole e comprensivo (con la moglie malata, con la figlia spaventata, con il suo anziano mentore). C’è una lunga e complessa scena in un’unica inquadratura nella quale Lydia dà una lezione alla Juilliard, e che comincia piuttosto bene con uno scambio di idee con uno/a studente che non vuole saperne di Bach, perché si identifica come “bipoc pangender” [persona nera, indigena e non bianca pangender], prima che Tár perda la pazienza e diventi sempre più feroce. Un filmato modificato di questa scena diventa virale sui social network, facendo apparire la condotta della donna ancora più violenta e imperdonabile di quanto non fosse.
Mostro favoloso
Vediamo Lydia Tár fare jogging in tre scene distinte, nelle quali cerca di smaltire lo stress crescente mentre la sua carriera va a rotoli. La vediamo aggirarsi notte dopo notte nel suo enorme appartamento, un capolavoro di architettura brutalista, spinta all’insonnia dallo stress che la rende ipersensibile a strani suoni, alcuni dei quali si rivelano causati da un’apparente stalker, un’ex partecipante a un programma di borse di studio la cui carriera è accusata di aver rovinato. L’appartamento sembra diventare sempre più oscuro e labirintico mano a mano che il film procede, alla maniera di un moderno melodramma gotico, spingendo Tár nel ruolo di un’eroina gotica, isolata, timorosa e sofferente, con cui il pubblico empatizza.
Con il suo immenso fascino, Blanchett fa del personaggio di Tár un mostro favoloso e martirizzato, perfettamente inserito in un mondo di alta cultura nel quale, così si dice, i mostri prosperano perché spesso sembra che il genio li accompagni. Il che diventa un’argomentazione implicita in contraddizione con qualsiasi critica satirica di singole scene, come la prima. Di conseguenza il film risulta talmente chiuso nella visione del mondo di Tár, da far risultare poco potente anche una presunta critica delle sue trasgressioni. È un film d’autore snob e di alta cultura sul mondo – altrettanto snob e di alta cultura – della musica classica, con una scena finale che esprime un disprezzo impressionante per la cultura popolare.
Questa tendenza generale diventa chiara verso la fine del film, quando finalmente entra in scena un personaggio forte che non condivide la visione del mondo di Tár. Per la durata di una scena estremamente rinfrescante, comunque, è un enorme sollievo. Si tratta di Olga Metkina (Sophie Kauer), una giovane violoncellista russa.
Già attratta da Metkina quando la vede nella toilette prima della sua audizione alla cieca, Tár cerca di farle ottenere un posto nell’orchestra, e poi un pezzo da solista, e la invita in un famoso ristorante dove le leggende della musica classica cenano da generazioni, aspettandosi chiaramente di stupire la giovane musicista. Metkina non coglie nessuno degli spunti di Tár e sembra non capire di essere stata invitata per ottenere dei favori. Ordina un sostanzioso piatto di vitello, invece del piatto vegetariano che le viene suggerito, e lo divora mentre afferma senza timore le proprie opinioni sulla musica.
La parte più scioccante del film si svolge alla fine, quando la carriera di Tár nel mondo occidentale è distrutta e la protagonista deve trasferirsi in un’imprecisata città del sudest asiatico dove dirigerà una piccola orchestra. All’inizio ho avuto la vaga idea che questo potesse rappresentare una forma di riscatto, se Lydia ce l’avesse fatta a uscire da quel mondo ottuso di poteri forti, sfruttamento e cultura alta, e a recuperare la sua creatività perduta, incarnata nella mancanza di progressi della sua ultima composizione: solo una serie di note singole e statiche. Forse, ho pensato, sarebbe stato possibile mostrare un po’ di energia fresca con scene di strada piene di gente vivace o un’orchestra di talenti inattesi e stimolanti, il tutto segnalato da un cambiamento nello stile e nel ritmo delle riprese, lontano dalla lentezza, dall’approccio lento, patinato e pomposo che Field predilige.
E invece le scene nel sudest asiatico sembrano concepite per essere viste con il tipico approccio di Lydia Tár: l’orrore di una snob per essere caduta così in basso. Praticamente ogni stanza è presentata come piccola e squallida, con persone inquadrate a una distanza poco lusinghiera e fin troppo realistica, che interagiscono con Tár in atteggiamenti goffi e ben lontani dalla sicurezza compiaciuta dell’intervista di Gopnik.
È un film girato, in un modo che confonde, attraverso la visione del mondo di Lydia.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sulla rivista statunitense Jacobin.