In un giorno normalissimo del 1889, Sadullah Pasha, eminente statista e ambasciatore dell’Impero ottomano a Vienna, decise che la vita si era fatta troppo penosa e “casa sua” troppo lontana, e si tolse la vita. Quando la notizia del suicidio raggiunse Istanbul, sua moglie, Necibe Hanim, andò in camera da letto, dove aveva aspettato in silenzio il ritorno del marito.

Si diresse verso il guardaroba, passò in rassegna i suoi abiti e, dopo aver riflettuto per un po’, ne scelse uno: era un elegante, raffinato vestito rosa, un colore quanto mai inconsueto per una musulmana che piange la scomparsa del marito.

Ma per quel vestito, una volta, Sadullah Pasha le aveva fatto i complimenti, e adesso che non c’era più, Necibe Hanim voleva indossarlo per lui. Aveva deciso che da quel momento in poi si sarebbe vestita sempre di rosa, in segno di omaggio verso lo sposo e come pegno del loro amore eterno. Mantenne la promessa e, nonostante la disapprovazione sempre più forte di vicini e parenti, continuò imperterrita a vestirsi di rosa anche durante la vecchiaia.

La casa dove abitava Necibe Hanim si chiamava Sadullah Pasha Yalisi ed era una magnifica residenza in riva al mare, situata entro i confini del quartiere storico di Üsküdar, l’antica Scutari. Di tanto in tanto, la servitù scorgeva Necibe Hanim in piedi dietro le tende della sua camera al primo piano, vestita di rosa dalla testa ai piedi, che aspettava muta e paziente il ritorno del marito. Rimase sospesa in quel roseo lutto fino al giorno della sua morte, avvenuta quando aveva ottant’anni nel 1917.

Forse ogni quartiere di Istanbul si può associare a un colore. Ogni zona della città, infatti, è dipinta in sfumature diverse, a seconda dell’angolazione con cui il sole si riflette sui tetti delle case o sui vetri delle finestre, formando cerchi concentrici di luce, come un’aureola appena percettibile. Istanbul, un tempo chiamata Costantinopoli, da lontano sembra un’unica città. Ma in realtà le Istanbul sono quattro.

Prima di tutto c’è la Istanbul di quelli che se ne sono andati, lasciandosi alle spalle i loro beni come resti sparsi di un passato ormai difficile da immaginare. Di loro restano chiese e cappelle e sinagoghe, oltre che scuole e cimiteri e vigneti. Un antico cimitero ebraico, un edificio art nouveau appartenuto un tempo a una famiglia levantina, una scultura proveniente da un ospedale armeno cattolico, una chiesa assira diroccata, rimasta a lungo priva di pastore e di congregazione, e una scuola greca ormai completamente deserta, quasi un fantasma.

Poi c’è la Istanbul degli ultimi arrivati, di quelli che si sono stabiliti qui negli ultimi cinquant’anni. Sono emigrati da piccole città o villaggi isolati dell’Anatolia, quasi sempre per motivi economici, nella speranza di trovare una vita migliore perché, come dice il proverbio, “le pietre di Istanbul sono fatte d’oro”.

Ai nuovi arrivati interessa poco o nulla la storia cosmopolita della città: quello che inseguono è un luminoso futuro. E così scivolano lungo le strade di Istanbul senza mai immergervisi, senza mai leggere le lapidi della città, senza mai chiedersi chi avesse vissuto qui tanto tempo prima del loro arrivo.

La terza è la Istanbul di quei pochi che sono riusciti a restare: generazioni intere di istanbulioti purosangue, nati e cresciuti qui, musulmani e non. Sono gli unici che ricordano la città com’era un tempo, e forse è per questo che parlano poco: sanno bene che le loro parole resteranno inascoltate.

La quarta è la Istanbul degli ospiti di passaggio: turisti, hippy, pellegrini, mistici, artisti, agenti segreti, convegnisti, giornalisti, diplomatici… residenti temporanei, persone che fanno tappa qui ma sono dirette altrove.

Le quattro Istanbul vivono l’una accanto all’altra, si sfiorano continuamente senza mai entrare in contatto tra loro. Perché è possibile sfiorarsi senza toccarsi, coesistere senza interagire, come l’acqua e l’olio. Ma oriente e occidente non sono l’acqua e l’olio, anzi: si mescolano. E in una città come Istanbul, questa commistione è intensa, incessante, sorprendente.

La mia Istanbul reca tracce di tutte e quattro. È la Istanbul di quelli che se ne sono andati, perché nei miei libri scrivo delle vestigia del passato. È la Istanbul degli ultimi arrivati, perché i miei personaggi sono quasi sempre persone che provengono dalla periferia, dai margini, dalle minoranze e dalle sottoculture.

È la terza, la Istanbul di chi è rimasto in questa città, perché cerco di ricostruire la sua memoria culturale e sociale. E infine, è anche la Istanbul degli ospiti di passaggio, perché sono nomade da una vita, e lo è anche la mia scrittura.

E così, io creo un’altra Istanbul, che appartiene a una quinta categoria: la Istanbul della narrativa, la Istanbul della letteratura e dell’immaginazione.

Una quinta Istanbul dove colori e categorie si mescolano senza tregua. Per me, infatti, “oriente” e “occidente” sono categorie relative, che non rimangono statiche né si escludono a vicenda. Sono convinta che su questo pianeta c’è una città dove impari subito a diffidare di etichette come “oriente” e “occidente”. Istanbul ti fa capire – forse non con la logica ma con l’intuizione – che in fondo “oriente” e “occidente” sono solo concetti immaginari, e quindi si possono dis-immaginare e ri-immaginare.

Internazionale, numero 698, 21 giugno 2007

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