Dalla fine di maggio in Turchia è cominciata una vera e propria rivoluzione. Con l’entrata in vigore della legge sulla limitazione dell’uso del tabacco, il fumo di sigaretta, elemento praticamente onnipresente del nostro spazio pubblico, rischia di scomparire.
In base alla nuova legislazione non ci saranno più zone riservate ai fumatori negli edifici pubblici, nei ristoranti, nei bar, nei luoghi di divertimento e nei caffè. Fumare sarà assolutamente vietato in qualunque luogo pubblico, dalle città ai piccoli caffè di paese. Come direbbe un mio amico, accanito fumatore da anni: “Ormai siamo diventati come gli americani”.
Ho cominciato a fumare quando avevo vent’anni ed ero studentessa all’università di Ankara. A quei tempi non ricordo di aver visto una sola persona che non fumasse alla mensa dell’università, quando passavamo il nostro tempo in discussioni appassionanti e stimolanti. Eravamo sempre avvolti in una densa nuvola di fumo.
In un mondo dominato dal denaro e dai valori materiali, la sigaretta era una sorta di “simbolo tradizionale di condivisione”: si mettevano i pacchetti sul tavolo e tutti se ne servivano o ne offrivano agli altri. Questa condivisione era comunque retta da regole ben precise, in base alle quali si dovevano offrire tante sigarette quante se ne prendevano.
Chi ne approfittava non era ben visto ed era criticato duramente, così come chi si teneva il pacchetto in tasca e non offriva le sigarette agli altri. Il fatto di fumare comportava anche altre regole, non scritte ovviamente, ma conosciute e rispettate da tutti.
A volte capitava che uno dei nostri professori piuttosto aperto e dallo spirito ribelle – e accanito fumatore anche lui – ci autorizzasse a fumare durante le lezioni. In quei casi aprivamo le finestre e ci accendevamo una sigaretta mentre prendevamo il tè. Erano i corsi in cui si aprivano i dibattiti più interessanti, e ovviamente anche quelli per cui studiavamo di più. Quegli ambienti fumosi erano le situazioni che per noi evocavano meglio i concetti di libertà, di indipendenza e di rispetto dell’individuo.
Tutto questo faceva parte del mito dell’Odtü (l’Università tecnica del Medio Oriente, ad Ankara). Vivere in sintonia con questo mito significava condividere un’idea comune della realtà che ci circondava.
Amavamo la nostra condizione di rivolta e di amore fraterno, consapevoli di trovarci in un universo studentesco diverso e privilegiato. Eravamo sprezzanti con le persone troppo ragionevoli che si preoccupavano solo della propria salute. Eravamo giovani e spensierati.
Con il tempo, il ruolo svolto dalla sigaretta nella mia vita è cambiato. Fumare non è stato più un elemento fondamentale della mia vita sociale, ma un bisogno quando mi isolavo per scrivere, soprattutto quando si trattava di un romanzo. Per molti anni la sigaretta e il caffè sono diventati per me due inseparabili compagni di lavoro. Al punto che ho cominciato a pensare di non poter più scrivere senza di loro.
Così quando sono andata negli Stati Uniti, a Boston, e mi sono messa a scrivere il mio romanzo Araf, ho provato un vero e proprio shock culturale. Dopo i miei studi all’Odtü, l’università e la scrittura erano diventate inseparabili dal tabacco. Ma nel campus di Boston era vietato fumare ovunque.
Non c’era una mensa, un caffè, un ristorante dove fosse possibile accendersi una sigaretta. Non solo: tutti avevano l’aria di apprezzare questo divieto, tranne ovviamente chi, come me, veniva dal vecchio mondo. Ungheresi, polacchi, turchi, arabi, iraniani, pachistani, indiani, tedeschi, italiani, irlandesi, cioè tutti coloro che venivano da paesi che non avevano ancora messo al bando le sigarette, faticavano ad accettare questo divieto.
È in queste condizioni che si è creata una curiosa solidarietà internazionale intorno alla sigaretta. Cosa non abbiamo fatto per cercare di aggirare la legge! Siamo arrivati a otturare i rivelatori di fumo montati sul soffitto con sacchetti di plastica del supermercato o con del silicone, per isolarli meglio. Mettevamo degli asciugamani bagnati sotto le porte o bruciavamo dell’incenso. Ma nessuno di questi stratagemmi era efficace e appena cominciavamo a fumare, venivamo immediatamente scoperti.
Oggi devo ammettere che il divieto è giusto. Avevamo bisogno di una legge, soprattutto per quanto riguarda i luoghi chiusi. In quanto ex fumatrice non posso non riconoscerne la validità. Ma non sono stati né i divieti né le informazioni sui rischi che il fumo comporta che mi hanno fatto abbandonare le sigarette. La gravidanza, il parto, la maternità: sono queste le cose che mi hanno permesso di sconfiggere la mia dipendenza dal tabacco. Così, senza clamori.
Internazionale, numero 748, 13 giugno 2008
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