Quando si tratta di affrontare il problema della droga, un fenomeno sociale prima ancora che criminale, i politici continuano quasi sempre a preferire la via della repressione. Eppure quando assistono alle prodezze dei loro atleti nazionali imbottiti di sostanze dopanti si esaltano.
Non si può fare di tutta l’erba un fascio, e ogni atleta è un caso a sé. Ma le Olimpiadi di Londra hanno confermato, ben prima dell’inevitabile confessione di Alex Schwazer, che l’uso di sostanze dopanti è una pratica diffusa se non addirittura sistematica in tante discipline. La sedicenne cinese Ye Shiwen, vincitrice della medaglia d’oro nella gara dei 400 misti, negli ultimi cento metri ha nuotato più veloce di Ryan Lochte e Michael Phelps. Basterà questo a convincere chi ha ancora dei dubbi?
I più ostinati diranno che gli atleti sono tutti dopati e che alla fine vince comunque il più forte. Ma questo, ahimé, era vero nel lontano passato. Oggi la chimica è capace di trasformare un cavallo da tiro in un purosangue e stravolgere le classificazioni tradizionali. Certo, a Londra solo pochi atleti sono risultati positivi al doping. Ma ci si può fidare di Victor Conte, inventore dello steroide anabolizzante thg ed ex preparatore di Marion Jones e Tim Montgomery (entrambi risultati positivi) quando dice: “I test ai Giochi olimpici sono dei quiz d’intelligenza più che dei controlli antidoping”.
È talmente ovvio, che la vera novità emersa dai giochi di Londra è che alcuni giornalisti hanno smesso di negare l’evidenza e hanno cominciato a interrogarsi sull’opportunità di legalizzare il doping. Il New York Times ha lanciato un forum sull’argomento: “Should doping be allowed?”.
Ci sono almeno quattro motivi per essere contrari a questa proposta:
Legalizzare il doping significa escludere definitivamente gli atleti che lo rifiutano dalle gare di alto livello e in particolare dai Giochi olimpici.
Legalizzare il doping significa incoraggiare l’uso di sostanze tra i giovani e gli sportivi dilettanti che vedono i professionisti come modelli da imitare (secondo le stime già 400mila sportivi in Italia usano sostanze dopanti) ma non hanno gli stessi mezzi finanziari per limitare gli effetti nocivi del doping.
Rinunciare a combattere il doping significa obbligare i genitori a infrangere i sogni dei loro figli. Significa costringerli a spiegare ai loro figli che il talento e i sacrifici non bastano, e che non hanno il diritto di sperare e avere fiducia nel mondo: devono adeguarsi alla scorciatoia o abbandonare la loro passione.
Legalizzare il doping mentre lo sport appassiona miliardi di persone e diffonde modelli sociali significa ammettere l’impotenza della politica. Come si può pretendere di riformare la finanza mondiale quando non si è nemmeno capaci di controllare poche centinaia di atleti?
La delegazione italiana a Londra era composta da 292 sportivi, quella francese da 332. Basterebbe seguire i flussi di denaro e di medicinali, imporre il passaporto biologico a tutti gli atleti e fare dei controlli antidoping seri con sanzioni pesantissime per i colpevoli. A quel punto, la domanda del New York Times non avrebbe più molto senso.
È una questione di coraggio politico. Il coraggio di volere uno sport pulito piuttosto che un posto alto nella graduatoria delle medaglie. È una questione squisitamente politica a cui i giornalisti specializzati dovrebbero interessarsi invece di far finta di meravigliarsi davanti a successi taroccati e a falsi campioni.
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