A cosa serve una costituzione? In un periodo in cui in Italia si discute di riforme istituzionali e di modifica della legge elettorale, la domanda non è affatto retorica.
Nel paese è ancora forte l’idea che la carta costituzionale italiana sia la più bella del mondo e che quindi debba essere difesa sempre e in ogni sua parte. Però, al di là dell’affermazione dei valori e dei princìpi in cui si riconosce la comunità nazionale, la costituzione ha lo scopo di definire le regole che permettono l’esercizio del potere politico (legittimato dal voto popolare) e di garantire l’equilibro tra i poteri. Da questo punto di vista appare evidente che oggi le istituzioni italiane sono inadeguate.
Il bicameralismo perfetto, il predominio di fatto del potere legislativo (compensato da un ricorso eccessivo ai decreti legge da parte dei governi) o anche lo scontro continuo tra potere politico e potere giudiziario mostrano i limiti di un testo nato nell’immediato dopoguerra con l’imperativo – pensando al fascismo – di evitare di dare troppa forza all’esecutivo. Ma in un mondo globalizzato è folle arroccarsi in difesa di una costituzione adatta a una situazione storica di settant’anni fa. Significa non volersi dotare di un governo in grado di prendere provvedimenti rapidi e incisivi e di far sentire la sua voce all’estero.
Si potrebbe obiettare che il sistema istituzionale tedesco, per esempio, assegna al parlamento un ruolo essenziale. È vero. Prima di ogni vertice europeo la cancelliera Angela Merkel deve andare davanti al bundestag. Al punto che l’esito delle decisioni prese nei vertici comunitari a Bruxelles dipende dal voto dei deputati tedeschi. Però c’è un differenza notevole: la stabilità dell’esecutivo tedesco, resa possibile dalla legge elettorale e dalla funzionalità delle istituzioni. Negli ultimi vent’anni, dal 1993 a oggi, come in un triste catalogo politico del don Giovanni, in Germania ci sono stati tre cancellieri, in Francia quattro presidenti della repubblica, “ma in Italia son già” dodici presidenti del consiglio.
Voler difendere a ogni costo la rappresentanza proporzionale o l’uguaglianza dei poteri tra camera e senato, insorgendo davanti ogni prospettiva di sistema semipresidenziale, significa preferire la democrazia formale a quella reale. Temere che un governo in carica per cinque anni possa mettere in discussione il buon funzionamento democratico significa non avere fiducia nel radicamento della democrazia in Italia e nella sua capacità di scegliere l’alternanza.
Un paese debole
Anche Silvio Berlusconi, con il suo potere economico e il suo impero nel settore dei mezzi di comunicazione, ha perso alcune elezioni. Ha partecipato sei volte, vincendone tre, perdendone due e pareggiandone una. In fin dei conti la storica ossessione per il rischio dell’uomo forte ha fatto dimenticare l’Italia debole.
Il paese è debole perché ha istituzioni che non garantiscono efficienza e stabilità. Debole per il peso sempre più relativo nel mondo. In fondo, l’attuale dibattito sulle riforme della costituzione costituisce, in sé, una testimonianza dell’inadeguatezza di gran parte della classe dirigente. Perché prima ancora delle istituzioni nazionali sono quelle europee che dovrebbero essere discusse e riformate con urgenza. In modo da dare molto più potere e legittimità all’esecutivo dell’Unione europea attraverso la democrazia diretta.
Il presidente del consiglio Enrico Letta e il ministro degli esteri Emma Bonino l’hanno capito da tempo, anche se in Italia e in Europa sembrano isolati. E non è un caso se l’attuale premier italiano sostiene da anni l’elezione a suffragio universale del presidente dell’Unione europea. Da molto tempo prima che si esprimesse su come cambiare le regole per arrivare al Quirinale.
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