Lo scorso fine settimana i cieli degli Stati Uniti si sono accesi di fuochi d’artificio che celebravano la tradizione di libertà e democrazia del paese in occasione dei festeggiamenti del 4 luglio, il giorno dell’indipendenza. Ma intanto i repubblicani continuano a sconfessare quella tradizione e cercano di sabotare il For the people act, una riforma per ampliare il diritto al voto e limitare i finanziamenti privati alle campagne elettorali. È stato uno strano spettacolo.
È difficile analizzare il proprio paese in maniera oggettiva e così ho chiesto ad alcuni studiosi stranieri un’opinione sul sistema politico statunitense. Per la maggior parte sono state conversazioni sconfortanti. “La democrazia statunitense non è quello che gli americani credono”, mi ha detto David Altman, un politologo cileno. “C’è una dissonanza cognitiva tra quello che i cittadini statunitensi pensano delle loro istituzioni e la realtà”. Staffan Lindberg, direttore del Varieties of democracy institute, un centro di ricerca che ha sede nell’università di Göteborg, ha detto: “La cosa preoccupante è che a tratti quello che succede negli Stati Uniti ricorda alcuni paesi del mondo dove la democrazia ha pagato un prezzo davvero alto e, in molti casi, è morta. Penso all’Ungheria di Orbán, alla Turchia di Erdoğan e all’India di Modi”.
In modo forse perverso, mi sono sentito rinfrancato dalla lista di Lindberg. Gli Stati Uniti si differenziano da questi paesi da molti punti di vista. Quando c’è un collasso della democrazia, di solito un partito usa il suo potere e la sua popolarità per rafforzare il proprio controllo sulla società. Ma negli Stati Uniti la questione è più complessa. I democratici al momento hanno una maggioranza risicata, almeno sul piano nazionale, e si stanno battendo per realizzare una serie di riforme. Perfino la proposta di compromesso sulla legge elettorale del senatore democratico moderato Joe Manchin – per vietare la manipolazione dei collegi elettorali, approvare una registrazione degli elettori automatica e dare la possibilità di votare nei 15 giorni precedenti alla data delle elezioni – rappresenterebbe un miglioramento molto più significativo di qualsiasi provvedimento approvato dagli anni sessanta a oggi.
“È facile votare in alcuni stati. È difficile, o sta diventando più difficile, votare in uno stato
repubblicano”
I commentatori progressisti spesso si concentrano sul rischio che la democrazia faccia dei passi indietro. Ed è un rischio reale. L’organizzazione non profit newyorchese Brennan center for justice fa sapere che tra l’inizio di gennaio e la metà di maggio almeno 14 stati hanno approvato 22 leggi che limitano l’accesso al voto, il che ha messo gli Stati Uniti “sulla buona strada per fare molto peggio di quanto abbiano fatto negli ultimi tempi in tema di soppressione del voto”. Un altro rapporto di tre associazioni che si occupano di diritto di voto ha elencato 24 leggi approvate in 14 stati nel 2021 che permetteranno ai parlamenti statali di “gestire le elezioni in modo criminale”. Ma è vero anche il contrario: il Brennan center ha individuato almeno 28 proposte di legge che aumentano l’accesso al voto, firmate in 14 stati.
L’elemento che contraddistingue la nostra epoca non è la regressione, ma la polarizzazione. “Stiamo diventando una società a due livelli per quanto riguarda il voto”, ha detto di recente Ari Berman, autore del libro Give us the ballot. The modern struggle for voting rights in America (Dateci la scheda elettorale. La lotta per il diritto di voto oggi negli Stati Uniti). “È facile votare in alcuni stati, cioè in quelli più democratici. Ed è difficile, o sta diventando più difficile, votare in uno stato repubblicano”, ha aggiunto.
Gli osservatori stranieri hanno capito che la democrazia multietnica negli Stati Uniti è un fiore che cresce su un terreno fragile. A volte ci vantiamo di essere la più antica democrazia del mondo, ed è vero in senso tecnico. Ma se si usa una più ampia definizione di democrazia, che includa come prerequisito il diritto di voto per le donne e le minoranze, siamo una delle democrazie più giovani del mondo. “È ridicolo dire che gli Stati Uniti sono la più antica democrazia del mondo”, mi ha detto Lindberg. “Sono diventati democratici solo dopo il movimento per i diritti civili degli anni sessanta. In questo senso, sono una democrazia giovane, come il Portogallo o la Spagna”.
Il presidente Joe Biden potrebbe approvare leggi che farebbero di più per migliorare le istituzioni
elettorali di qualsiasi altra misura presa dai tempi di Lyndon B. Johnson
La cosa è evidente se si osservano le istituzioni. Una società che dà valore alla democrazia e alla partecipazione politica non avrebbe progettato un sistema come quello statunitense. “Il sistema dei grandi elettori, che serve a scegliere il presidente, è un’istituzione preistorica. Ogni studioso della democrazia nel mondo ne rimane sorpreso”, mi ha detto Altman. E poi mi ha chiesto: “Perché votate di martedì? Non date alle persone il tempo per andare ai seggi. Dovete chiedere al vostro capo il permesso per andare alle urne. È strano”. Riguardo al ruolo dei soldi nei finanziamenti delle campagne elettorali Altman ha aggiunto: “Sembra più simile a una plutocrazia”. Da questo punto di vista, gli attuali sforzi del Partito repubblicano per mettere a tacere certe categorie di elettori non sono un’aberrazione rispetto a un passato luminoso, ma un ritorno alle origini. E questo aumenta le loro possibilità di successo. Secondo Lindberg, “è più comune che siano le democrazie giovani a entrare in crisi piuttosto che quelle vecchie. Se gli Stati Uniti peggiorassero al punto da non poter più essere considerati una democrazia, sarebbe un ritorno al passato: sì ai diritti, ma solo per alcuni”.
Non si tratta di uno scontro sul concetto di democrazia, ma su chi vi può partecipare. “Il punto non è il modo in cui le persone eleggono il loro governo”, mi ha detto Ivan Krastev, un politologo che dirige il Centre for liberal strategies di Sofia. “Il punto fondamentale è il genere di persone che il governo vuole eleggere: a chi verrà data la cittadinanza, a chi il diritto di voto, chi si cercherà di escludere”. La teoria di Krastev, che si rifà alla storia europea e statunitense, è che gli stati democratici spesso hanno due tipi di maggioranza. Una è la maggioranza storica dello stato nazione. In Europa queste maggioranze tendono a essere etniche. Negli Stati Uniti la maggioranza è più strettamente legata all’appartenenza razziale e alla religione. Ma poi esiste una definizione più letterale di maggioranza democratica: la coalizione di elettori che può unirsi per determinare l’esito delle elezioni. A differenza della maggioranza storica, la maggioranza elettorale ogni tanto cambia.
Spesso le due cose convergono: la maggioranza elettorale riflette la maggioranza storica. Ma negli Stati Uniti sono sempre più spesso in conflitto. “In passato sembrava che queste maggioranze vivessero in armonia, ma adesso il punto è quanto le maggioranze elettorali possono trasformare la maggioranza storica”, mi ha detto. Durante le guerre nell’ex Jugoslavia, mi ha spiegato Krastev, c’era un famoso adagio. “Perché dovrei far parte di una minoranza nel tuo paese quanto tu puoi essere una minoranza nel mio?”. A volte questo ragionamento si fa sorprendentemente esplicito, come quando Robin Vos, presidente dell’assemblea statale del Wisconsin, ha dichiarato: “Togliendo Madison e Milwaukee dal calcolo elettorale statale, avremmo una chiara maggioranza”. Secondo Krastev, tuttavia, il commento di Vos esplicita il sottotesto dell’attuale momento storico: “Il grande potere della comunità politica è il potere d’includere ed escludere. Chi decide chi verrà escluso?”.
Non voglio sottovalutare quello che sta facendo il Partito repubblicano per danneggiare le istituzioni. Fa paura vedere uno dei due partiti statunitensi sviluppare l’idea che la democrazia in sé sia il suo problema, oltre a un programma politico con il quale cercare di neutralizzare questa minaccia. L’ho definita “una spirale catastrofica per la democrazia”: un partito che prende il potere mentre perde voti userà il potere che ancora detiene per indebolire elettori ed elezioni che minacciano il suo futuro.
Ma questo non è l’unico esito possibile. È stato confortante vedere che sempre di più i democratici si rendono conto di dover lottare per difendere la democrazia. E semplicemente battendosi contro l’ostruzionismo, l’amministrazione Biden potrebbe approvare leggi che farebbero di più per migliorare le istituzioni elettorali di qualsiasi altra misura approvata dai tempi del Voting rights act di Lyndon B. Johnson del 1965. In questo senso, i repubblicani hanno capito cosa rischiano: di ritrovarsi in un paese democratico, dove la scarsa popolarità delle loro idee li esporrebbe a pesanti conseguenze elettorali. Un paese degno di come lo raccontiamo al mondo.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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