Perché i pacifisti in occidente non manifestano contro Assad
Tra i paesi in cui la vita costa poco, “i paesi in cui mollare tutto e ricominciare da capo”, quei paesi tipo Marocco, Bermuda, Costa Rica, in cui aprire un caffè sul mare e vivere scalzi e beati, un sito statunitense di servizi finanziari, ripreso dal sito della Repubblica un paio di settimane fa, consigliava la Siria. Chi avrebbe mai consigliato la Bosnia negli anni novanta?
Secondo le stime più alte, le varie guerre nell’ex Jugoslavia hanno causato complessivamente 250mila morti: la metà di quelli della Siria. Eppure di quelle guerre, vent’anni dopo, tutti noi abbiamo ancora mille ricordi. L’assedio di Sarajevo, il massacro di Srebrenica. Il crollo del ponte di Mostar. Chi come me all’epoca andava a scuola ha studiato il diario di Zlata, la nuova Anna Frank.
Cos’è cambiato da allora? Dai tempi della Bosnia o delle manifestazioni contro la guerra in Iraq, i tre milioni di piazza San Giovanni a Roma nel 2003, contro la guerra “senza se e senza ma”? Cos’è cambiato rispetto all’ultima guerra di Gaza, quando c’erano stati cortei in tutto il mondo? In queste ore viene ucciso un siriano ogni 25 minuti. Dopo cinque anni e cinquecentomila vittime, com’è possibile sentirsi ancora chiedere dov’è Aleppo?
Assad è laico. E questa, per noi, è l’unica cosa che conta
Dopo l’ennesimo bombardamento di un ospedale e la morte dell’ultimo pediatra rimasto in città, il 28 aprile, i siriani hanno chiamato alla mobilitazione internazionale con la campagna “Aleppo is burning”: ma nelle piazze del mondo non si è visto che un pugno di bandiere. Cosa è cambiato dai tempi dell’Afghanistan, quando Tiziano Terzani finiva in classifica con le sue Lettere contro la guerra? Rispondere che il movimento pacifista, che i movimenti in assoluto sono in declino, è troppo semplice. Troppo comodo. E non solo perché non è vero in generale (pensiamo al movimento Occupy), ma perché non è vero neanche nello specifico.
Per Kobane si sono mobilitati in tanti. Il Rojava, il Kurdistan siriano, sembra essere il nuovo modello di democrazia, e decine di attivisti di ogni dove sono non solo impegnati in mille iniziative nei loro paesi, ma fisicamente presenti in Kurdistan.
La solidarietà esiste, non è vero che il movimento pacifista non ha più capacità di mobilitazione. Il problema è che in Siria sta con Assad. Sta con l’uomo che ha usato ogni arma possibile contro i siriani, dai gas alla morte per fame, l’uomo che ha inventato i barili esplosivi, che per anni ha bombardato tutti tranne i jihadisti dello Stato islamico. L’uomo che ha finito per uccidere o ferire il 12 per cento della popolazione che sostiene di governare. Ma che è da molti considerato il male minore.
L’unica cosa che conta
Perché tutto è meglio dell’islam. E non importa che oltre la metà dei siriani, ormai, siano sfollati o rifugiati, non importa che quattro siriani su cinque siano sotto la soglia di povertà e che un milione di loro vivano mangiando erba e bevendo acqua piovana, e che secondo gli economisti ci vorranno 25 anni perché il paese torni a essere quello di prima della guerra, quando secondo le Nazioni Unite il 30 per cento dei siriani viveva già sotto la soglia di povertà.
Non importa che Assad abbia demolito la Siria, non importa che abbia distrutto un’intera generazione, che abbia trasformato i siriani in un popolo di mendicanti, coperti di fango e stracci agli angoli delle nostre strade, annegati sulle nostre coste. Non importa che proprio come i suoi tanto criticati oppositori resista solo grazie al sostegno esterno, che non riesca a vincere questa guerra neanche con l’appoggio di Hezbollah, della Russia, dell’Iran e di centinaia di mercenari: non importa che stiamo mantenendo al potere uno che in realtà non ha potere. Non importa: perché Assad è laico. E questa, per noi, è l’unica cosa che conta.
Alcuni giorni fa ho twittato un selfie di Kinana Allouche, una giornalista che sostiene Assad, che posava sorridente su uno sfondo di cadaveri. Ho ricevuto insulti per ore, non solo da parte di siriani. Quei cadaveri non sono di siriani, mi hanno risposto in molti, sono di terroristi. Siamo davvero arrivati a questo punto? E se anche fossero stati terroristi? Abbiamo forse approvato le foto di Abu Ghraib perché i prigionieri erano di Al Qaeda?
Di fronte al dramma della Siria, si sente dire, il mondo è fermo. Magari fosse vero. Al contrario: la Russia, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, l’Iran, il Qatar, il Kuwait, Israele, in Siria sono intervenuti tutti, perché anche aprire o chiudere un confine, come nel caso della Turchia, è una forma d’intervento. L’unica che non è intervenuta è la società civile internazionale, che invece ha un ruolo fondamentale.
Perché l’obiettivo dei negoziati in corso in questi giorni a Ginevra non è mai stato raggiungere una tregua, ma una riduzione delle ostilità. Che può significare due cose. Per alcuni è un modo di sostenere implicitamente Assad, attraverso dei cessate il fuoco su scala locale che gli consentono di concentrarsi sulle aree più strategiche, una a una, una battaglia alla volta. Anche perché escludono imprecisati “terroristi” e gli lasciano la libertà di bombardare chiunque.
I siriani sono soli perché se in Siria si dovesse votare probabilmente vincerebbero gli islamisti
Ma per altri i negoziati di Ginevra sono un reale tentativo di raggiungere la pace. Basato sull’idea che da entrambi i lati ormai le milizie sono troppe e troppo frammentate perché sia possibile raggiungere un accordo su scala nazionale, l’idea che nessuno, né Assad né i ribelli, abbia più la capacità né il consenso per governare il paese, e che sia quindi necessario costruire un’alternativa: convincere i siriani a tornare e a riprendersi la Siria.
Per questo la società civile internazionale ha un ruolo fondamentale: perché è indispensabile rafforzare la società civile siriana. Aiutarla a organizzarsi. Con quello stesso tipo di iniziative in cui oggi attivisti di ogni dove sono impegnati insieme ai curdi, e ai palestinesi, agli iracheni, ai tunisini, agli afgani e agli egiziani. Invece i siriani sono soli. Completamente soli.
Perché? Non giriamoci intorno: sono soli perché se in Siria si dovesse votare probabilmente vincerebbero gli islamisti. E noi siamo per la democrazia solo se i suoi cittadini sono come noi. Si potrebbe dire che in base all’esperienza degli ultimi anni gli islamisti di solito governano male, e che quindi per non averli al potere è sufficiente lasciarli governare perché siano sconfitti alle elezioni successive.
La fatica del confronto
Ma il problema è più profondo. Il problema è la nostra totale incapacità di confrontarci con chi è diverso. Di confrontarci davvero, oltre la retorica del multiculturalismo, delle differenze, della tolleranza: il problema è la nostra totale incapacità di confrontarci con gli islamisti. E non mi riferisco ad Al Qaeda, ovviamente, ai jihadisti. Mi riferisco a tutti gli altri. A quei mille movimenti islamisti di cui si nega la presenza, la rilevanza stessa nella società, figuriamoci un ruolo politico.
Hanno spesso idee lontane dalle nostre, è vero. Ma è una battaglia culturale. Una battaglia di idee, di stili di vita. E a volte, certo, anche di diritti e libertà. Ma come pensiamo di vincerla? Con lo sterminio? O forse provando a convincere gli altri delle nostre ragioni?
Ma costa fatica. Costa fatica entrare davvero in questi paesi, frequentarne i bassifondi, la fame, le disuguaglianze, l’emarginazione, il rancore, invece che le élite anglofone e francofone, così colte, così tranquille, così simili a noi. Costa fatica misurarci con chi, con la sua diversità, rimette in gioco i nostri valori, le nostre azioni: con chi mette a nudo le nostre imperfezioni. Costa fatica scoprire che le olgettine di Berlusconi non sono un esempio molto convincente di emancipazione, costa fatica ricordare che, come diceva Norberto Bobbio, non è mai la nostra libertà contro la loro oppressione: è sempre questione di diverse forme di libertà, diverse forme di oppressione. Costa cinquecentomila morti.