La vittoria, a Mosul, è certa, ma siamo stati avvertiti: potrebbe non essere né semplice né rapida. A Manbij, in Siria, l’ultima città persa dal gruppo Stato islamico (Is), la battaglia è durata 71 giorni. E Mosul è nove volte Manbij. Ha ancora un milione di abitanti, cosa che complica i movimenti, e il califfato è stato proclamato in una delle sue moschee, è la sua capitale. Per l’Is ha un valore simbolico, non solo militare. E l’Is ha avuto mesi per prepararsi. Siamo stati avvertiti: resisterà. E con ogni mezzo. Gas inclusi. Anche se il problema vero, onestamente, in questa nostra guerra ai jihadisti, è un altro: è che i jihadisti sono da entrambi i lati del fronte.
E quindi, in realtà, a essere certa non è la vittoria, per noi, ma la sconfitta.
Nonostante i miliardi di dollari spesi dagli Stati Uniti, l’esercito iracheno ancora oggi non ha che cinque brigate in condizione di combattere. Circa cinquemila uomini. E la battaglia, quindi, è affidata alle milizie sciite. La prima città che hanno liberato, un anno fa, è stata Tikrit, la città di Saddam Hussein: davanti a due cronisti della Reuters, hanno celebrato la vittoria tagliando la gola a dei presunti jihadisti in mezzo a una folla in festa. A Mosul, sono in prima linea le brigate Badr: sono specializzate in omicidi con il trapano. Sono sciiti che non vogliono sunniti: né più né meno di quei sunniti che non vogliono gli sciiti.
Tutta l’attenzione è per l’Is ora, ma è al Qaeda, in realtà, la vera vincitrice di questi mesi
Purtroppo, la direzione in cui sta andando l’Iraq è chiara. Con tutto quello a cui ha da pensare, in questi giorni il parlamento ha approvato una legge che vieta l’alcol.
Certo, ci sono i curdi. Che non sono jihadisti. Anzi. I curdi siriani stanno sperimentando una democrazia diretta da cui abbiamo molto da imparare. Ma appunto: sono curdi, non sono arabi. E i curdi iracheni, quando hanno riconquistato le terre da cui erano stati cacciati, e in cui erano stati sterminati, negli anni ottanta, hanno spesso dearabizzato tutto quello che in passato era stato decurdizzato. E anche un po’ di più.
Perché le terre dei curdi, tra l’altro, coincidono con le terre più ricche di petrolio.
A un certo punto, è vero, Mosul cadrà, come prima o poi cadrà anche Raqqa. Ma sarà davvero la sconfitta dello Stato islamico? Nel suo ultimo discorso, il portavoce dell’Is, Abu Mohammed al Adnani, ucciso da un drone americano ad agosto, è stato chiaro: la parola d’ordine è inhiyaz, la ritirata temporanea. Perché l’Is, in realtà, non è mai stato sconfitto. I jihadisti hanno imparato la lezione di Kobane, la prima città che hanno perso, perdendo centinaia di combattenti: e da allora, a Tikrit, a Ramadi, a Palmira, Fallujah, fino a Manbij, non hanno mai opposto una vera resistenza. Semplicemente, a un tratto sono andati via. Come anche al Qaeda. Perché tutta l’attenzione è per l’Is, ora, ma è al Qaeda, in realtà, la vera vincitrice di questi mesi: pronta a capitalizzare sugli eccessi dei cugini. In Siria ormai è sinonimo non di islam, ma di resistenza ad Assad, e ha un consenso sempre più ampio. Si è visto in Libia. L’Is è stato scalzato via da Derna, il suo bastione: ma è stato sostituito da al Qaeda.
La Russia sta bombardando Aleppo notte e giorno: ma i jihadisti sono andati via mesi fa. Secondo l’Onu, al Qaeda ormai ad Aleppo ha una presenza solo simbolica, non più di mille uomini. Ha il controllo forse politico, ma non più militare, della città. Questo non significa, naturalmente, che si sia arresa. Semplicemente, sa che senza contraerea non c’è partita. Sa che per vincere bisogna essere vivi, non morti. Perché inhiyaz non significa non combattere più, ma combattere in modo diverso. Ti dicono: apriremo nuovi fronti. Attaccheremo altrove. Aleppo è persa, i jihadisti non possono impedire la vittoria di Assad, ma possono condizionarne la natura. E in modo decisivo. Possono impedire ad Assad di governare con attentati continui.
E preparare il ritorno.
Quello contro cui stiamo combattendo, in fondo, è già un ritorno.
Questa è l’al Qaeda che dicevamo di avere sconfitto in Afghanistan e in Iraq.
La direzione della storia è chiara
Quello che manca, nelle nostre analisi sui jihadisti, è un’analisi della loro idea di vittoria e di sconfitta. Che è un’idea molto diversa dalla nostra. Non ragionano in termini di mesi, ma di anni, di generazioni, come israeliani e palestinesi: se non secoli. Nessun jihadista pensa di avere perso. Per niente. Con chiunque parli, ti dicono: vent’anni fa per voi l’islam non esisteva. Oggi invece non si discute d’altro. Oggi siamo ogni giorno in prima pagina.
Oggi, ti dicono, una città come Hamtramck ha una maggioranza musulmana. Ed è vicino Detroit: è una città americana. Ti dicono: non guardare alla cronaca, guarda alla storia.
Perché la direzione della storia, ti dicono, è chiara.
L’Is ha perso il 50 per cento del suo territorio in Iraq, e il 25 per cento in Siria. Ma per i jihadisti la sconfitta non è la perdita di una città, fosse anche una capitale, non è la perdita di un califfo né dell’intero esercito: è la perdita della volontà di combattere.
Una guerra non è il fronte, è tutto quello che gli sta dietro, intorno: è tutto quello che genera il fronte. In Libia, quasi la metà dei jihadisti viene dalla vicina Tunisia. Partono per la Libia come un tempo per Lampedusa, per l’Europa: in cerca di lavoro. Perché sono alla fame. Il 20 ottobre a Kasserine, città che non a caso ha uno dei tassi più alti sia di disoccupati sia di jihadisti, si è avuto un tentato suicidio collettivo di ragazzi laureati e disperati. Se vogliamo sconfiggere l’Is in Libia, dobbiamo intervenire non in Libia, ma in Tunisia.
Le ragioni economiche e sociali, naturalmente, non sono le uniche. Dipende dai paesi. Però spesso sono le ragioni dominanti. Quelle su cui si innestano le altre. Il problema è che i jihadisti arrivano da mondi che non conosciamo minimamente –perché tanto, no?, è questione di sunniti e sciiti. Di odi ancestrali.
Sono appena rientrata dalle Maldive. I turisti occidentali notano a stento che è un paese musulmano: e invece, è il paese non arabo con il più alto numero pro capite di foreign fighters. C’è tutto, alle Maldive: criminalità, corruzione, eroina. Una povertà micidiale. E questo islam conservatore su cui speculano politici di ogni tipo. Sono solo 350mila abitanti, e le entrate del turismo superano i tre miliardi di dollari l’anno: potrebbero vivere come gli svizzeri. E invece a Malé, la capitale, vivono in dieci in una stanza.
Il 5 per cento della popolazione possiede il 95 per cento della ricchezza.
E ognuno ha un fratello, un cugino, un amico in Siria.
Ho chiamato uno dei ragazzi in partenza. Forse, gli ho detto, non è il migliore dei momenti. Pensi di rinviare il viaggio? “Se non potrò andare a Raqqa”, mi ha detto, “verrò a Parigi”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it