Il sociologo Keith Kahn-Harris ha scritto uno dei testi più affascinanti sul negazionismo. In Denial: the unspeakable truth (uscito nel Regno Unito nel 2018) distingue tra negazione e negazionismo. La negazione è un processo individuale che rimanda al rifiuto psicologico di accettare come vero un fatto assodato. È una specie di processo di rimozione che ricorda il tentativo di ignorare una verità scomoda il più a lungo possibile. Il negazionismo, invece, non si limita a rimuovere la realtà ma ne costruisce una alternativa. In questo senso è un processo più complicato, che chiama in causa le diseguaglianze e le strutture di potere della nostra società.
Esistono molti esempi di negazionismo: da quello che minimizza, o respinge, i rischi del riscaldamento globale, a quello che mette in discussione l’olocausto, fino al negazionismo dell’hiv, che ha portato un ex presidente del Sudafrica come Thabo Mbeki a bloccare la fornitura di farmaci antiretrovirali causando la morte di circa 330mila persone, secondo uno studio di Harvard. Il negazionismo rivela la volontà di confutare fatti empiricamente accertati per costruire una società alternativa, a partire spesso da un desiderio inconfessabile.
Negli ultimi mesi il concetto di negazionismo è stato evocato in tutti i paesi colpiti dall’epidemia di covid-19. Per riprendere le categorie di Keith Kahn-Harris, anche in questo caso possiamo distinguere tra negazione e negazionismo. Raccontando l’aumento dei contagi in Africa, per esempio, la Bbc ha parlato di negazione per descrivere la reazione della popolazione di alcuni paesi. In Nigeria, dove il lockdown è stato introdotto ancora prima che il virus si diffondesse per evitare il collasso del sistema sanitario, queste misure sono state accolte con diffidenza dall’opinione pubblica. Molti hanno una sorta di rifiuto psicologico nell’accettare la pandemia come un problema reale.
Christian Drosten, esperto del governo tedesco sull’epidemia di Sars-cov-2 e direttore dell’Istituto di virologia dell’ospedale Charité di Berlino, lo ha definito il “paradosso della prevenzione”. Nel momento in cui le misure di contenimento riescono a portare il virus sotto controllo, le persone vivono il lockdown come un’imposizione forzata. Una reazione, ha detto Drosten, che gli impediva di dormire la notte. Per certi versi si tratta di un paradosso che abbiamo osservato anche in Italia, dove la tempestiva decisione del governo di chiudere buona parte delle attività produttive è stata vissuta come un trauma dagli abitanti delle zone meno colpite. La negazione è stata una reazione psicologica diffusa, che rimanda al tentativo di allontanare da sé una realtà disturbante e difficile da accettare.
La rete
Ma il negazionismo non è la difficoltà psicologica di accettare una minaccia. È la decisione politica di ignorarla. Pochi politici esemplificano questo atteggiamento meglio del presidente statunitense Donald Trump. Per molti versi tutta la sua gestione dell’epidemia è stata uno straordinario esempio di negazionismo, incentrata su due priorità: la necessità di minimizzare la gravità del virus e la volontà di mettere fine al lockdown il prima possibile. L’Atlantic ha compilato una lista delle affermazioni mistificanti del presidente, per rivelare come buona parte di queste fosse falsa. Alcune frasi – il virus “è solo un’influenza”, “un giorno, come per miracolo, scomparirà”, i contagi stanno “scendendo dovunque”, gli Stati Uniti hanno condotto “più test di tutti gli altri paesi messi insieme” – riassumono bene la politica di Trump degli ultimi mesi: da un lato sdrammatizzare il problema, dall’altro promuovere storie clamorose e spettacolari sul virus, in modo da ignorarlo.
Per capire cosa sia il negazionismo, tuttavia, non è sufficiente riconoscere la falsità di queste storie. Non basta un debunking per rivelare la finalità del negazionismo, perché lo scopo del negazionismo, per tornare alla definizione di Kahn-Harris, non è dissimulare la realtà ma crearla.
Per molti mesi le parole di Trump non sono cadute nel vuoto. Una ricerca condotta dai ricercatori della Queensland university of technology in Australia ha rivelato che le teorie del presidente si sono diffuse rapidamente grazie a una rete informativa che spaziava dai social network a Fox News, passando per i sostenitori di teorie del complotto come QAnon e siti come Infowar, per l’alt-right statunitense e i gruppi vicini a Trump. Chi ha studiato queste narrazioni – l’idea che il virus fosse una “bufala” o che la pandemia fosse un complotto creato del mondo liberale per confondere la popolazione – ha evidenziato la continuità tra il negazionismo sulla pandemia e quello climatico, osservando che dietro c’erano le stesse fonti: quei think tank, individui e organizzazioni che Sheldon Whitehouse, senatore democratico del Rhode Island, ha definito “web of denial”, la rete dei negazionisti.
I collaboratori di Trump sapevano che la riapertura avrebbe colpito le persone appartenenti alle minoranze
Queste idee non si sono diffuse solo su internet. Stephen Moore, uno dei principali consiglieri economici del presidente Trump e cofondatore del Club of Growth, un’organizzazione conservatrice che promuove il libero mercato, ha sostenuto la campagna Save our country, promossa da una coalizione di aziende e gruppi di destra per convincere la Casa Bianca a riaprire le attività economiche e per sostenere le iniziative contro il lockdown.
Negli ultimi mesi in tutti gli Stati Uniti ci sono state manifestazioni contro il distanziamento sociale, con i dimostranti che scandivano slogan come “Gesù è il mio vaccino” e “libertà o covid”. Un consigliere comunale repubblicano che rivendicava il diritto di non indossare la mascherina è arrivato a usare la frase “I can’t breathe”, pronunciata da George Floyd prima di essere ucciso dalla polizia di Minneapolis.
Per Stephen Moore i manifestanti armati e senza mascherina che sventolavano bandiere confederate e avevano la svastica tatuata sul braccio sono “le Rosa Parks dei nostri tempi”: persone che lottano contro l’ingiustizia e la perdita delle libertà personali nel nome del diritto di fregarsene della pandemia e di riaprire i luoghi di lavoro.
Di fatto quelle manifestazioni avevano due finalità politiche. Come ha scritto Quinn Slobodian sul Guardian, i consiglieri di Trump da un lato vedevano nella pandemia un’opportunità per imporre negli Stati Uniti una sorta di “federalismo competitivo”, un sistema dove gli stati sono legati l’uno all’altro da un mero rapporto di concorrenza. Lo stesso sistema a cui pensava Trump quando, all’inizio dell’epidemia, li aveva messi in competizione nell’accesso ai ventilatori e ai dispositivi di protezione individuale. Dall’altro lato, sapevano che la decisione di riaprire il paese e le fabbriche avrebbe colpito le persone appartenenti alle minoranze molto più dei bianchi.
E infatti è all’elettorato bianco che i collaboratori di Trump puntavano per uscire vincitori dalla crisi sanitaria e ottenere la rielezione del presidente. Un po’ come avevano fatto nel 2016, la loro idea era trasformare Trump nell’eroe della classe lavoratrice bianca: sia puntando sulla frustrazione causata dall’aumento della disoccupazione e dalla crisi economica, sia usando a proprio vantaggio il razzismo strutturale della società statunitense.
La pandemia sta mettendo a dura prova questa strategia. Sul Financial Times il giornalista Simon Kuper ha cercato di capire perché i politici di destra come Trump, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro e il premier britannico Boris Johnson stiano gestendo così male la pandemia. Secondo lui, per capirlo bisogna tornare all’economia dell’attenzione. Negli ultimi anni i social network e le fake news hanno premiato i leader di destra, quei politici narcisisti che non possiamo definire bugiardi perché non hanno mai avuto nessun interesse per la verità. A Trump non è mai importata la verità, perché sa benissimo che non serve ai fini del consenso elettorale. La verità ha tempi più lunghi della politica, e un’affermazione clamorosa su Twitter sarà in grado di attrarre l’attenzione a prescindere dal fatto che sia vera o falsa. La pandemia ha cambiato tutto questo, perché ha accelerato il ciclo di vita della verità, consentendole di tenere il passo con il presente. In questo senso, ha permesso di vedere in modo eclatante che dietro il negazionismo di Trump, dietro alle affermazioni più clamorose e spettacolari, non c’era la verità ma la decisione politica di mettere in pericolo le persone più fragili e le minoranze.
Persone sacrificabili
Oggi i risultati delle politiche di Trump sono sotto gli occhi di tutti. In Arizona, in Florida, in Louisiana, in Texas, in South Carolina, in North Carolina e in Georgia il numero dei contagi è in aumento. Sono gli stati che secondo Stephen Moore sarebbero dovuti uscire vincenti dalla pandemia perché hanno saputo mettere un freno ai sindacati, tagliare le tutele per i lavoratori e abbassare le tasse per i grandi capitali.
In alcune contee dell’Arizona gli obitori sono pieni e gli ospedali sono vicini al collasso, al punto che lo stato ha introdotto una procedura in base alla quale le cure saranno razionate in base alla priorità. Il dibattito si è acceso quando Michael Hickson, un afroamericano di 46 anni con quadriplegia che aveva contratto il covid-19, è morto in Texas dopo che i medici hanno interrotto i suoi trattamenti. L’ospedale ha scelto di dare la priorità a chi ha più speranza di vita, una decisione che trasforma i più vulnerabili – gli anziani, i disabili, i poveri e i malati – in persone sacrificabili.
Il concetto di sacrificabilità è centrale in questa storia. Sul New York Times Jamelle Bouie ha scritto:
La maggioranza dei contestatori – come la maggioranza di quelli che vogliono riaprire il prima possibile – è bianca. Questo dato è in contrasto con il numero delle vittime del covid-19 (che sono in modo sproporzionato neri e ispanici), di quelli che hanno perso il lavoro a causa della pandemia (che sono in modo sproporzionato neri e ispanici) e di quelli che sono stati o saranno costretti a lavorare a causa della riapertura (cioè i lavoratori nel settore dei servizi, che sono, anche loro, soprattutto neri e ispanici). È vero che non tutte le disparità etniche sono la prova di qualche dinamica legata al razzismo. Ma questa lo è sicuramente. Non si può separare la violenza dei manifestanti contro il lockdown dal loro essere bianchi. La loro richiesta di “riaprire” l’economia è evidentemente legata alla consapevolezza che molte delle persone più colpite appartengono ad altri gruppi etnici
La tesi di Bouie è sostenuta dai fatti. Mentre le richieste di aprire gli stati vengono da gruppi di destra bianchi, i dati del governo federale rivelano chiaramente che i neri e le persone di origine latinoamericana sono stati colpiti in modo sproporzionato dal virus in tutto il paese. In Golden gulag (University of California Press 2007) la studiosa afroamericana Ruth Wilson Gilmore – docente alla City University di New York – sostiene che la disuguaglianza nella vulnerabilità alla morte è la dimostrazione più profonda del razzismo. Se guardiamo al modo in cui la vulnerabilità alla morte è stata evidenziata dalla pandemia, capiamo che il problema non è solo il razzismo ma anche il modo in cui le persone vengono discriminate in base all’età, alle loro capacità fisiche, alla loro classe e al loro orientamento sessuale.
Per certi versi possiamo dire che la pandemia ha mostrato che nelle società democratiche occidentali non tutte le vite contano allo stesso modo. Ci sono organizzazioni che da molti anni denunciano il fatto che le vite dei disabili sono considerate “sacrificabili”. Nel Regno Unito le donne disabili con meno di 65 anni hanno undici volte più probabilità di morire rispetto alle donne non disabili. Inoltre, il Public health England, un’agenzia che fa parte del ministero della salute britannico, ha rivelato che il tasso di mortalità delle persone che appartengono alle minoranze è tre volte più alto rispetto alla popolazione bianca. A questo si aggiunge la strage avvenuta nelle residenze per anziani in tutta Europa.
Su Al Jazeera Vito Laterza e Louis Philippe Romer hanno scritto: “È difficile non vedere le implicazioni eugenetiche in tutto questo”. È difficile, in altre parole, non vedere che dietro al negazionismo c’è una specie di darwinismo sociale che consente ai più forti di sopravvivere mentre i più deboli vengono sacrificati. L’Italia non è immune a questa dinamica. Come è successo in Germania, nel Regno Unito e in Francia, anche qui i più fragili sono stati i più colpiti dal virus: gli anziani nelle Rsa, i migranti che lavorano nei magazzini della logistica della società Bartolini di Bologna e quelli che lavorano nel distretto delle carni di Modena, i braccianti che lavorano nel settore agricolo. In Italia l’incidenza del contagio aumenta tra i lavoratori più ricattabili, quei settori in cui la povertà si mescola alla vulnerabilità giuridica, alla mancanza di assistenza sanitaria, all’impossibilità di rispettare le misure d’isolamento, ai mezzi pubblici sovraffollati, ai turni massacranti nelle fabbriche dove non si rispetta il distanziamento sociale.
Per molti versi la pandemia ci sta offrendo una radiografia della nostra società: ci sta dicendo chi è spendibile e chi no, e quanto vale la vita di ognuno. Tutto questo aiuta a capire cosa sia il negazionismo. Secondo Keith Kahn-Harris, non è sufficiente riconoscere le narrazioni false che dominano la scena. Non è sufficiente dire che la pandemia non è un influenza: bisogna comprendere quale desiderio oscuro si nasconda nella scelta politica di ignorarla.
In questo contesto il caso statunitense offre alcune risposte chiare. Il negazionismo di Trump ha messo a nudo l’inconfessabile nostalgia suprematista che anima la decisione politica di ignorare le necessità di cura dei più fragili. Forse dovremmo cominciare a discutere dei negazionismi europei, prima che sia troppo tardi.
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