Quanto vale la vita degli esseri umani? Quant’è giusto spendere per proteggerla? Fino a che punto le misure restrittive prese per limitare la diffusione del nuovo coronavirus hanno generato benefici superiori ai loro costi economici? Di fatto, quasi tutte le religioni e le filosofie considerano la vita un bene dal valore inestimabile. Eppure, non sono poche le circostanze in cui all’esistenza di una persona viene applicato un prezzo, si tratti di pagare un riscatto per la liberazione di un ostaggio o di prevenire il rischio di un incidente.
In questi mesi, alla stima economica del valore della vita è stato affidato il compito oneroso di decidere quali fossero le politiche migliori da introdurre per gestire la pandemia. In Francia, per esempio, Christian Gollier, direttore della Scuola di economia di Tolosa, ha stabilito che, in termini di benessere collettivo, i novanta miliardi di perdite causati dai 30mila decessi fossero un male minore rispetto al lockdown. Per giungere a questa conclusione, Gollier ha considerato un valore di tre milioni di euro a vita e ha confrontato le perdite derivanti dalla morte di 30mila persone con il costo derivante da una caduta del prodotto interno lordo (pil) pari al 20 per cento, concludendone che i decessi fossero il male minore rispetto al lockdown.
In modo diverso, l’economista inglese Julian Jessop è arrivato alla stessa conclusione in una ricerca pubblicata per l’Institute of economic affairs, think tank di destra ispirato ai princìpi del libero mercato. Supponendo che il virus avrebbe colpito solo gli anziani, e ipotizzando che questi avrebbero avuto un’aspettativa di vita di dieci anni, Jessop ha stimato che 400mila morti premature valessero al massimo 600mila sterline ciascuna (60mila sterline all’anno per dieci anni), una cifra distante dai tre milioni a vita di Gollier. Pur apprezzando la difficoltà di confrontare “arance (morti per il covid-19)” e “pere (i costi economici e fiscali di un lockdown)”, Jessop ha concluso che, una volta considerati i costi economici e sociali, salvare 400mila vite non fosse necessariamente vantaggioso.
Schiavismo e capitale umano
Nella storia dell’umanità le stime attribuite al valore della vita sono state le più diverse. Nel 1910 un articolo del New York Times – intitolato What the baby is worth as a national asset – usava una stima dell’economista di Yale Irving Fisher per dedurre che un bambino, alla nascita, valesse 362 dollari ogni 450 grammi. Il calcolo si basava sulla stima della potenziale ricchezza prodotta dal bambino o dalla bambina nel corso della sua esistenza. Considerando che nel 1910 gli Stati Uniti avevano un raccolto agricolo dal valore di 6,96 miliardi di dollari, e che nello stesso anno erano nati 2,4 milioni di bambini, questo significava che se ognuno di loro fosse sopravvissuto “al normale periodo di otto anni”, avrebbe potuto produrre “2.900 dollari in più di quanto costa allevarlo e mantenerlo”, rendendo le nascite un investimento conveniente per aumentare la ricchezza del paese.
La tendenza a quantificare il valore della vita degli esseri umani sulla base della capacità di produrre reddito è una prassi di lungo corso. Secondo lo storico dell’università di Haifa Eli Cook deriva dallo schiavismo. È stato il governatore del South Carolina, lo stato che nel 1740 aveva la percentuale più alta di schiavi nel paese, a calcolare il pil sulla base del fatto che ogni schiavo produceva un reddito pro-capite di 40mila sterline all’anno.
Per Cook, la teoria del capitale umano deriva esattamente da queste stime. Ancora oggi, la teoria del capitale umano calcola il valore della vita sulla base dei redditi percepiti. Secondo l’Istat la vita di un italiano vale in media circa 342mila euro all’anno. Tuttavia, poiché lo “stock di capitale umano” – come lo chiamano gli economisti – non è uniforme nella popolazione, ne consegue che la vita di un giovane vale di più della vita di un anziano perché ha davanti a sé più anni per lavorare, esattamente come la vita di un uomo vale di più rispetto alla vita di una donna: per l’Istat, non a caso, il valore pro-capite maschile è pari a 453mila euro, mentre quello femminile è circa la metà, 231mila euro. Come spesso accade, invece di spiegare le disuguaglianze sociali, questi valori le misurano e normalizzano il fatto che, nel nostro mondo, alcune vite semplicemente valgono più delle altre.
Due casi
Nel suo libro Pricing lives: guideposts for a safer society (Princeton university press 2018), l’economista W. Kip Viscusi spiega che la teoria del capitale umano si presta a così tante contraddizioni da divenire inservibile. A volte, per esempio, conduce a stime così basse del valore della vita che diventa più conveniente risarcire una morte che prevenirla. Altre volte rende addirittura vantaggiosi i decessi.
Pensiamo alla storia della Ford Pinto. Nel 1971 la Ford aveva cominciato la produzione della Pinto, un’auto dal prezzo accessibile con un mercato potenziale di circa undici milioni di compratori. Nonostante le aspettative, la Pinto aveva un difetto di fabbricazione che, in caso di velocità sostenuta, portava il paraurti a schiacciare il serbatoio della benzina, generando una miccia che rischiava di infiammare il veicolo.
Nel 1977 Mark Dowie ha vinto il premio Pulitzer per un articolo pubblicato da Mother Jones in cui raccontava come la Ford avesse deciso di soprassedere sul difetto di fabbricazione facendo un calcolo costi-benefici secondo il quale risarcire l’eventuale morte dei conducenti dell’auto esplosa sarebbe stato più conveniente che sostituire il pezzo difettoso. Il costo della sostituzione del serbatoio del gas era di 11 dollari a veicolo. Moltiplicato per 12, 5 milioni (11 milioni di auto più 1,5 milioni di autocarri) portava a un costo totale di 137,5 milioni di dollari. Mentre risarcire la morte di 180 conducenti e altrettanti feriti – numeri tratti da un’analisi della Ford ottenuta da Mother Jones – sulla base di una stima di 200mila dollari a vita, avrebbe abbassato i costi a circa 50 milioni di dollari. Nel caso della Ford Pinto, dunque, era più conveniente risarcire un decesso che prevenirlo.
Altre volte, i decessi sono stati considerati addirittura convenienti.
In un rapporto del 2001 la Philip Morris ha rassicurato il governo della Repubblica Ceca sul fatto che il fumo avrebbe avuto “effetti positivi” sulle finanze nazionali, perché la mortalità precoce dei fumatori avrebbe fatto risparmiare al governo tra 23,8 milioni e 30,1 milioni di dollari di assistenza sanitaria, pensioni e alloggi per gli anziani. Insomma: il fumo fa male alla salute, ma le morti precoci dei fumatori fanno bene alle casse dello stato.
Calcoli statistici
Data l’etica discutibile di queste conclusioni, Kip Viscusi ha elaborato un approccio alternativo, chiamato “valore di una vita statistica” (Vsl). In questo caso, il valore della vita non dipende dalla quantificazione del reddito negli anni a venire, né prevede che alcune vite valgano più di altre all’interno dello stesso paese. Il valore di una vita statistica non rimanda a una persona fisica, ma calcola quanto le persone siano disposte a pagare per ridurre il rischio di morire. Negli Stati Uniti il valore di una vita statistica è di circa dieci milioni di dollari. In Italia è di circa cinque milioni di euro.
Secondo Viscusi, usando questa stima, l’analisi costi-benefici del lockdown diventa molto più semplice. Nel caso degli Stati Uniti, dove si stima che la pandemia metta a rischio un milione di persone, la perdita di circa dieci trilioni di dollari – un valore ottenuto moltiplicando i dieci milioni di dollari associati a ogni vita per il milione di morti previsti – eccede il costo di qualunque misura restrittiva. Lo stesso vale per l’Italia, dove il costo di mezzo milione di morti è calcolato tra 2,5mila miliardi di euro e 3mila miliardi di euro, a seconda delle stime, circa una volta e mezzo il pil italiano.
Il lavoro di Kip Viscusi trasforma l’intero dibattito sul valore della vita degli esseri umani in un affascinante paradosso.
Le parole dei politici
Sebbene il senso comune consideri immorale stimare il valore della vita, è vero altresì che le stime di economisti come Viscusi sono più morali di altre. Pensiamo alle parole del presidente della giunta regionale ligure Giovanni Toti, che ha definito i pazienti molto anziani “non indispensabili allo sforzo produttivo del paese”. Non è raro che nel dibattito pubblico emergano voci che considerano alcuni gruppi sociali privi di valore o troppo costosi per essere protetti.
Questo non vale solo per l’Italia. Il parlamentare conservatore inglese Charles Walker, per esempio, ha dichiarato che “non tutti i decessi sono una tragedia: non si può paragonare la morte di un bambino o di un adolescente con quella di un novantenne”. Sempre nel Regno Unito, Jeremy Warner ha scritto sul Telegraph che “da un punto di vista economico, il covid-19 potrebbe anche risultare leggermente vantaggioso a lungo termine, eliminando in modo sproporzionato le persone anziane non autosufficienti”.
Negli ultimi mesi sono state molte le dichiarazioni di esponenti del mondo politico e imprenditoriale in base alle quali eliminare le vite meno produttive sarebbe quasi vantaggioso perché consente di risparmiare sulla spesa pubblica e sulle pensioni. Negli Stati Uniti un funzionario comunale della California è stato costretto alle dimissioni per aver affermato che la pandemia non è altro che uno strumento usato dalla natura per “permettere ai malati, agli anziani, ai deboli di seguire il loro corso naturale”, e per “porre fine a quello che è un peso significativo per la società”, riferendosi ai senzatetto.
Negli ultimi mesi le associazioni di pensionati e delle persone con disabilità sono intervenute duramente per stigmatizzare la tendenza a definire alcune vite meno importanti di altre. Per certi versi, le parole di alcuni politici mostrano come le diseguaglianze sociali precedano la stima economica del valore della vita, rendendo manifesta l’esistenza di gerarchie che diventano esplicite ogni qual volta una comunità decide di cercare il capro espiatorio, la vittima da sacrificare per accelerare l’uscita dalla crisi e per ripristinare condizioni di normalità.
In questa pandemia l’untore è stato dapprima il migrante, nei mesi in cui ancora si parlava di “virus cinese”, e gradualmente si è incarnato nelle persone più vulnerabili, suggerendo che la “salute” delle finanze pubbliche dipendesse dalla capacità di ridurre l’oneroso bisogno di cura degli anziani, dei disabili e delle persone più fragili. È sorprendente, in questo contesto, che siano proprio alcuni economisti come Viscusi a spingere per attribuire alle vite più vulnerabili un valore economico elevato per poterle proteggere, mentre nel senso comune resta ancora tanta strada da fare.
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