“Era una posizione troppo radicale”. Steve Peers, professore di diritto europeo e umanitario all’università di Essex, non ha mai creduto che la Corte di giustizia dell’Unione europea potesse seguire il parere del suo avvocato generale, Paolo Mengozzi, nella causa “XX contro lo stato belga”.
Dopo aver agitato l’opinione pubblica belga per mesi, la questione dei visti umanitari ha oltrepassato i confini nazionali il 7 febbraio 2016, quando Mengozzi ha preso le parti di una famiglia siriana (padre, madre e tre bambini) a cui lo stato belga aveva negato un visto per raggiungere in modo legale e sicuro il Belgio e chiedervi l’asilo.
Secondo l’avvocato generale, sulla base dell’articolo 25 del codice comunitario dei visti uno stato europeo in alcune circostanze ha l’obbligo di rilasciare per motivi umanitari un visto con validità territoriale limitata (che permette cioè di accedere al territorio di un unico stato dell’Unione). Non è una semplice facoltà: il rilascio diventa obbligatorio se, negando quel visto, lo stato dell’Ue espone la persona al rischio di trattamenti inumani o degradanti, perché nel rilasciare o negare un visto le autorità sono tenute ad applicare la carta europea dei diritti fondamentali.
Fine della storia
La Corte non solo non ha seguito il ragionamento di Mengozzi, ma non ha nemmeno voluto aprire la discussione. Invece di “prendere una posizione di compromesso”, osserva Peers, “per esempio insistendo sul margine di discrezionalità degli stati membri”, la Corte si è dichiarata non competente sostenendo, come aveva fatto il Belgio, che il caso della famiglia siriana non rientrava nel campo di applicazione del codice dei visti.
Il testo infatti regola le modalità di rilascio di visti di breve durata. La famiglia siriana, si legge nella sentenza, voleva venire in Belgio per chiedervi l’asilo, quindi prevedeva di restare sul territorio europeo più di novanta giorni. Non era di un visto Schengen che aveva bisogno, ma di un visto per soggiorni di lunga durata, e quel tipo di visto è rilasciato sulla base del diritto nazionale, non del diritto comunitario. Fine della storia.
O di una certa versione della storia. Perché la posizione della corte contraddice non solo il ragionamento di Mengozzi, per il quale “l’intenzione” della famiglia – “chiedere lo status di rifugiato una volta entrati sul territorio belga” – non era incompatibile con la richiesta di un visto di breve durata (anche perché “il loro diritto di restare su quel territorio oltre i novanta giorni sarebbe derivato dal loro status di richiedenti asilo”).
Secondo la Corte, dare ragione alla famiglia siriana vorrebbe dire consentire alle persone di scegliere il paese dove chiedere l’asilo
La sentenza contraddice anche la pratica osservata nei consolati di diversi stati dell’Ue, che rilasciano visti per ragioni umanitarie proprio sulla base dell’articolo 25 del codice dei visti.
In Italia ha fatto notizia l’apertura di corridoi umanitari, frutto di un accordo tra il governo e la federazione delle chiese evangeliche, la comunità di Sant’Egidio e la Tavola valdese, ma iniziative simili sono state prese anche da Malta, dal Portogallo e, con modalità un po’ diverse, dalla Francia e dai Paesi Bassi.
Come altri giuristi, Peers è convinto che l’eccezione prevista dall’articolo 25 del codice dei visti riguardi anche la durata del soggiorno. “Tutto il punto dei visti con validità territoriale limitata è che possono essere rilasciati in assenza dei requisiti necessari per ottenere un visto normale”, spiega. “È logico che tra questi requisiti ci sia la durata prevista del soggiorno”. Peers sottolinea inoltre la debolezza, sul piano giuridico, del collegamento stabilito dalla Corte tra il caso esaminato e il diritto d’asilo europeo, collegamento che rafforza il sospetto di una sentenza influenzata dal clima politico attuale.
Secondo la Corte, dare ragione alla famiglia siriana vorrebbe dire consentire alle persone di scegliere il paese dove chiedere l’asilo, e questo “lederebbe l’impianto generale del sistema istituito dal regolamento” di Dublino. Ma il regolamento di Dublino stabilisce i criteri per individuare lo stato dell’Ue responsabile dell’esame di una richiesta di asilo, e nulla impedisce che uno di questi criteri sia la disponibilità di quello stato a rilasciare un visto per motivi umanitari.
Allo stesso modo non regge l’obiezione della Corte secondo cui autorizzare il rilascio di visti umanitari sulla base del codice dei visti equivarrebbe ad autorizzare la presentazione di domande di asilo presso “rappresentanze degli stati membri situate nel territorio di un paese terzo”. Si tratta di due procedure diverse, e tali rimarrebbero.
Se uno stesso testo ha dato origine a interpretazioni diametralmente opposte è anche perché le disposizioni che contiene riguardo ai visti umanitari potrebbero essere più esplicite. Ne sa qualcosa l’eurodeputato spagnolo Juan Fernando López Aguilar, membro dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici e relatore per la riforma del codice dei visti.
Il Consiglio europeo non vuole sentir parlare del rapporto tra visti e protezione internazionale
Avviata nel 2014, la riforma si è arenata dopo la presentazione, nell’aprile del 2016, della relazione di López Aguilar, che ha aggiunto interi paragrafi e articoli – assenti nella proposta della Commissione – con lo scopo di chiarire come e quando andrebbero rilasciati i visti umanitari.
“Il rilascio del visto a una persona che chiede protezione costituisce un mezzo per consentire a tale persona di accedere al territorio degli stati membri in modo sicuro”, si legge per esempio nell’emendamento 7. “Al momento di esaminare la competenza consolare territoriale o la ricevibilità di una domanda di visto o la possibilità di rilasciare un visto con validità territoriale limitata, i consolati dovrebbero quindi prestare particolare attenzione alle persone che chiedono protezione. Per queste persone, gli stati membri dovrebbero ricorrere alle esenzioni previste per motivi umanitari o in virtù degli obblighi internazionali previsti dal presente regolamento”.
Passaggi del genere non sono piaciuti alla Commissione, che nella sua proposta di riforma aveva limitato la possibilità di rilasciare i visti umanitari, e hanno fatto sobbalzare il Consiglio, che del rapporto tra visti e protezione internazionale non vuole sentir parlare.
I vinti della guerra contro i profughi
In un documento di novembre del 2016 la presidenza del Consiglio, all’epoca esercitata dalla Slovacchia, invitava il parlamento europeo “a non includere i visti umanitari nel codice dei visti”, sostenendo che le “vie legali di accesso all’Unione per le persone che hanno bisogno di protezione internazionale” potevano essere esplorate in altri ambiti, per esempio “la proposta sul reinsediamento”. Se il parlamento non avesse accettato quella condizione, scriveva la presidenza, il progetto di riforma del codice dei visti avrebbe dovuto essere “sospeso”.
“Il Consiglio rifiuta di negoziare con il parlamento. Gli stati membri non accettano il fatto che, dopo il trattato di Lisbona, non possono esserci leggi europee senza il parlamento”, denuncia López Aguilar. “Peggio ancora: agli stati membri non importa niente che queste leggi vengano fatte o meno. In passato raggiungere dei risultati esercitando la presidenza del Consiglio era una questione di prestigio nazionale. Oggi invece le presidenze di turno se ne infischiano se il processo legislativo al livello europeo è bloccato dall’assenza di volontà politica del Consiglio. È come se non gliene importasse più nulla dell’esistenza stessa dell’Unione europea. E poiché la Commissione non è abbastanza forte da affrontare il Consiglio, gli stati membri continuano a bloccare tutte le proposte che pregiudicano i loro egoismi nazionali. Per l’Unione europea è un disastro”.
Che impatto avrà la sentenza della Corte sulla riforma del codice dei visti?. “Alcuni stati membri si sentono senz’altro rafforzati nelle loro posizioni dal rifiuto della Corte di difendere il principio dei visti umanitari”, ammette López Aguilar. “Ora, insieme ai relatori per la riforma del codice dei visti, dovremo fare un bilancio della situazione e definire una nuova tattica di negoziazione”.
Il giorno stesso della sentenza Theo Francken, segretario di stato belga per le politiche di asilo e di immigrazione, ha sbandierato la sua soddisfazione su Twitter con un infantilismo omicida alla Donald Trump: “Yesss! Abbiamo vinto!”. Poco dopo il suo tweet ha preso a circolare associato all’immagine di uno dei vinti nella guerra europea contro i profughi, Aylan Kurdi. Al suo posto potremmo un giorno vedere i tre bambini a cui Francken ha negato un visto, con il beneplacito della Corte del Lussemburgo.
Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con VoxEurop e _OBC Transeuropa__._
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