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Scrivendo anche di fumetti per la rivista cartacea, devo onestamente dire che il romanzo a fumetti Il Blu è un colore caldo di Julie Maroh (dal quale il film di Abdellatif Kechiche è tratto), ora uscito per Rizzoli Lizard (160 pagine, 16 euro), non è certo infame ma nemmeno nulla di particolarmente interessante; fatto salvo l’idea di base e la bella trovata di una ragazza gay e romantica con i capelli blu (con l’aggiunta graziosa, quanto leziosa, che scrive sul suo diario con le tonalità del blu). Un’idea, quella della ragazza dai capelli blu (e il volto diafano), tra l’altro ripresa dal fumettista e regista Enki Bilal, lui sì un grande, che si ispirò al volto di Isabelle Adjani per la sua Femme Piège (La Donna Trappola). Il personaggio Bilal lo riprese poi nel suo lungometraggio Immortal Ad Vitam.

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Ha certamente il merito di avvicinare alla questione del lesbismo il pubblico adolescente (anche se il manga ha fatto di meglio) ma non ne scaturisce nessuna forza provocatoria, nessuna vera forza poetica non solo nel linguaggio della narrazione, inquadrature, ellissi, montaggio delle tavole, ma nemmeno in quello del disegno, così essenziale nel fumetto. Nessuna o poca consapevolezza che il lettore contempla il disegno nella sua fissità. Magari il lettore non sempre ne è ben cosciente, ma oltre alle enormi differenze di* découpage *tra fumetto e cinema dal vero, a lui arriva anche un elemento ben specifico al fumetto: la forza del segno grafico – che può essere anche dolcissimo e delicato, sia chiaro –, cioè un segno personale ed espressivo. Qui, davvero, non è il caso.

Come ha scritto qualcuno, Kechiche sembra aver fatto suo il principio kubrickiano di adattare al cinema opere minori, anche se forse le opere minori scelte dal regista di *2001 Odissea nello spazio *erano già in partenza più interessanti.

Il film di Kechiche esalta invece la forza del naturale dei corpi, anzi, potremmo dire che essa “è” il realismo cinematografico dei corpi. Forza naturale corporea che esalta e mette in cortocircuito al tempo stesso quella provocazione che, quantomeno sulla carta, potrebbe certamente dar fastidio ai benpensanti. Proprio perché è un manifesto del “Naturale”.

Lode poi a Kechiche, per quanto scontata, di uscire dal recinto della minoranza d’appartenenza, allargando la visuale alle altre minoranze, parlandoci così non solo d’interscambiabilità comuni tra le problematiche delle varie minoranze ma anche di fratellanza tout-court.

Qui* * il link della recensione scritta poco dopo la conclusione di Cannes (ancora vibrante per l’emozione credo di poter dire).

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