Les combattants di Thomas Cailley (Quinzaine des réalisateurs, Francia ‘98).
Vedendo [Les combattants][1] di Thomas Cailley, gran vincitore a Cannes nella Quinzaine des réalisateurs e riprogrammato in questi giorni anche a Cannes a Roma, Milano e Firenze, si può pensare al Bruno Dumont degli inizi, anzi al film d’esordio che Moretti portò da noi nel 1997, L’età inquieta (La vie de Jésus). Il cinema di Dumont in seguito si è evoluto prendendo toni sempre più cupi e drammatici ma anche via via più profondi e originali (spesso, anche se non sempre), titoli sfortunatamente ancora oggi inediti in Italia.
L’età inquieta di Bruno Dumont.
Ma è un Dumont più leggero e propositivo, anzi potremmo quasi dire un Dumont alla rovescia. Le scene sono spesso corte e le varie situazioni si susseguono l’una dopo l’altra, incalzanti, per non togliere ritmo al film. È un film sociale, una storia d’amore, un film d’azione, una commedia a misura d’uomo, dove lo spettatore è messo alla pari con i personaggi. Verso la fine anche un film di fantascienza, postApocalisse.
La sequenza d’apertura di L’umanità di Bruno Dumont.
Tra un ragazzo e una ragazza, che si conoscono in una situazione poco simpatica, gradualmente si crea un legame. Sono in effetti due rovesci della stessa medaglia, eppure i due giovani attori paiono davvero due metà. Lui è timido ma non chiuso, anzi aperto al mondo, educato e delicato. Lei è selvaggia, scontrosa, diffidente.
Sicuramente è lui a spiccare, grazie all’interpretazione di Kevin Azaïs (già sette film all’attivo), al suo sguardo intenso, dovuto non solo ai suoi occhi azzurri, ma perché è amichevole, franco, e dà forma al personaggio lungo tutto il film, sia nelle sequenze parlate sia nelle numerose inquadrature senza dialoghi.
È eccellente pure Adèle Haenel, vista in vari film inediti in Italia, Oltralpe spesso gettonati da critica e pubblico, come L’Apollonide di Bertrand Bonello o il lungometraggio d’esordio di Céline Sciamma (la regista di Tomboy), La naissance des pieuvres.
Il trailer di Hors Satan di Bruno Dumont (Cannes 2011 – Un Certain Regard).
Cailley, che esordisce al lungometraggio, ci guida nell’esplorazione degli antipodi, di due opposti umani, che alla fine si riveleranno due metà perfette l’uno dell’altra. Nel farlo, usa un po’ tutti i generi, poiché uno dei temi è lo scivolamento della finzione nel reale, la creazione di un mondo – forse di un nuovo mondo –, la potenza presente in ciascuno di noi nel creare nuove realtà, il tutto conseguito con un registro filmico naturalista eccettuata la parte finale.
Il trailer di Hadewijch di Bruno Dumont.
Il film rovescia il sentimento di Apocalisse o postApocalisse, oggi dominante al cinema e nelle fiction come nella società stessa in generale, presentandolo come una cappa avvolgente che sta agli individui rovesciare.
Se nemmeno i Dardenne, campioni del cinema d’autore sociale, presentano personaggi che riescono a saldarsi in un’azione collettiva con strutture organizzate – il loro eccellente Deux jours, une nuit in Concorso quest’anno a Cannes non sfuggiva alla regola – ecco allora il primo film sociale d’avventura che ne fa un elemento di forza rilanciando la linea d’orizzonte oggi non più percepita, ponendo la forza di volontà come energia liberatrice di tutto contro l’atteggiamento fatalista e amorfo nei confronti dell’attuale opprimente stato delle cose e facendone così un caso riuscito di cinema d’autore e popolare assieme, ben più del levigato Party girl, film d’apertura di Un Certain Regard e vincitore della Caméra d’or.
Del resto, Les combattants è stato a sua volta il trionfatore della Quinzaine des réalisateurs in termini di premi, quelli assegnati da alcuni dei suoi partner istituzionali, dato che la Quinzaine è una sezione non competitiva. Al film di Thomas Cailley sono quindi andati i premi di Europa Cinemas, il premio Sacd (Société des auteurs et compositeurs dramatiques) e l’Art cinema award, a cui si è aggiunto poi il nostrano Fipresci, come potete leggere [qui][2].
Camille Claudel di Bruno Dumont.
Il film s’immerge nell’ossessione dell’autodifesa, demone canceroso della democrazia statunitense mai estirpato e anzi dilagante anche qui in Europa, in Italia come in Francia.
È proprio la giovane selvaggia di buona famiglia, Madeleine, a essere attratta dai commandos dell’autodifesa, fino al punto di iscriversi a un corso di paracadutisti seguita dal ragazzo, Arnaud, il quale sembra più interessato a lei che a quel mondo.
D’altra parte, Madeleine ben presto si rivela una contestatrice, inserendo poche osservazioni logiche che distruggono velocemente l’apparato ideologico delle esercitazioni, in teoria pieno di logica, come quando ci si deve gettare con il corpo sopra una granata per fare scudo e sacrificarsi per proteggere gli altri. E lei: “Impossibile, è contrario a qualsiasi istinto di sopravvivenza”. Nonostante i dinieghi del regista, che forse aspira a un pubblico ideologicamente ampio, si avverte una parodia di quell’ambiente compiuta con tratti leggeri, ma inequivocabili. È il caso della scena della mensa, quando l’ufficiale addestratore lancia una finta granata e tutti fanno a gara per fare scudo con il corpo come se fosse un gioco.
Realtà e finzione sono difficili da distinguere: come scrive [Le Monde][3] del 10 aprile 2013 – cioè in un’epoca in cui il film forse non era ancora stato girato, ma certamente era già in preparazione – in Francia si è svolto un processo contro un commando di parà reo di aver usato proiettili reali durante un’esercitazione al pubblico: 16 persone, tra cui cinque bambini, erano stati feriti. Il presidente dell’epoca, Nicolas Sarkozy, aveva tacciato quei militari di “dilettanti”, suscitando grande irritazione negli ambienti militari.
I due ragazzi, vagando nella foresta, faranno la loro iniziazione, a modo loro. Il mondo è selvaggio e nessuno ti aiuta, devi uscire da Walt Disney, sembra dire indirettamente Madeleine ad Arnaud fin dall’inizio. E gli animali sembrano esserne lo strumento, la metafora.
È strano il rapporto con gli animali di Madeleine, e specularmente a lei di tutto il film, come quando Arnaud pesca un grazioso furetto nella piscina dei genitori di lei. Più avanti la vediamo fare della centrifuga di pesce-gatto; “pesci-gatto” di merda esclama il fratello in un’altra sequenza; in un documentario televisivo si vedono delle persone usare l’interno di una carcassa d’animale come rifugio. Quando poi si tratterà di mangiare nella foresta, sarà Madeleine a voler uccidere una volpe per mangiarla. Salvo poi sentirsi male e vomitare.
Madeleine vuol fare sempre quello che poi contesterà, o di cui si pentirà.
Camille Claudel di Bruno Dumont.
La bella freschezza di Arnaud e Madeleine è l’essenza del film, l’antidoto al sentimento di Apocalisse predominante oggi nel cinema odierno come nella vita reale di cui abbiamo detto. Bisogna essere uniti per rovesciare l’ordine mentale delle cose e rovesciare poi quello fisico. Certo, si è forse soli, nessuno ti aiuta. Anche se non è detto.
Come dice verso la fine Arnaud al fratello: “A volte le foreste prendono fuoco da sole, la causa non è sempre la cicca dell’imbecille di turno”. E aggiunge: “La foresta si rigenera, riparte”. Alla fine, nell’ultima inquadratura, non a caso impostata sugli sguardi dei protagonisti, pieni di complicità e speranza, Arnaud e Madeleine aggiungono: “La prossima volta stiamo in guardia”. E “sempre a l’affût”. Cioè fare la posta, sempre a caccia.
Ci auguriamo con forza una distribuzione italiana del film.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it