Il regista Thomas McCarthy ha un cognome che nella storia degli Stati Uniti è sinonimo di oscurantismo. Ma con Il caso Spotlight McCarthy (che è anche un attore e sceneggiatore) realizza un film ambientato in un’epoca, il 2001-2002, in cui il maccartismo era ormai un lontano ricordo, pur tenendo conto che siamo negli anni tetri di Bush.
Boston – la Boston europea, la Boston dei padri pellegrini, la Boston dei Kennedy – in quegli anni era avvolta da un oscurantismo sotterraneo, una cappa di omertà e ipocrisia. Chi cercava di squarciarla finiva isolato, messo all’angolo.
Nel raccontare la vicenda della squadra di giornalisti investigativi del Boston Globe – lo Spotlight appunto – che ha obbligato la chiesa cattolica ad ammettere l’esistenza di preti pedofili e a prendere provvedimenti, il regista ha scelto una forma sobria, modesta nel senso buono del termine.
Non è un cinema esibito, non ci sono volteggi di regia, il montaggio è piuttosto serrato (anche se la narrazione ha una sua lentezza) e non c’è un incalzare di musiche o effetti sonori. Insomma è come se si volesse lasciare spazio ai dialoghi, alle parole tirate fuori con fatica, ai silenzi, ai non detti, lasciando respirare la coscienza dei vari personaggi che si succedono. Tutti, chi più, chi meno, si mettono alla prova.
Il caso Spotlight
Il richiamo a Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, spesso evocato quando il film è stato presentato ai festival di Venezia e Toronto, è esatto ma in parte fuorviante. Pakula, pur essendo un regista di una certa asciuttezza, era comunque più spettacolare: era impegnato a creare un’epica. Del resto il tema del film è talmente grave e doloroso che si può comprendere la scelta del regista: fare un film non sensazionalistico, proprio come, su una vicenda del genere, non si dovrebbe fare del giornalismo sensazionalistico. Bastano i dati e le testimonianze. Dati e testimonianze che fu difficile portare alla luce e dai quali emerse che nella diocesi di Boston oltre settanta preti avevano compiuto abusi sessuali su minori. L’inchiesta, premiata con il Pulitzer, ha portato ad altre scottanti rivelazioni in oltre duecento città del mondo.
Quindi nessuna spettacolarità vanagloriosa, il fine è quello di mettere al centro l’uomo. Gli esseri umani. Le vittime, certo, ma anche i giornalisti. Quando il neodirettore del Boston Globe, Martin Baron, spinge il capo di Spotlight, Walter Robinson, interpretato con asciutta intensità da un rinato Michael Keaton, a riaprire l’inchiesta, quella che era una solitudine di chi aveva cercato di aprire già a suo tempo un varco, diviene ben presto una solitudine condivisa anche con i giornalisti. Una solitudine che a loro volta potranno condividere con le vittime, per tanto tempo sole e abbandonate con il loro dolore.
Lezione di giornalismo
Pian piano, si crea un’unità spirituale tra gran parte degli attori della vicenda. È un film corale in cui, grazie al lavoro di squadra, si rompono le omertà, e simultaneamente, si rompe anche questa condizione umana di solitudine endemica. Raggiungendo una coralità più ampia, quella della società, la comunità ferita si ricompone.
Per mezzo di una spettacolarità ritratta, se non in ritirata, e pur costruendo personaggi di carattere – l’avvocato disilluso che tentò per primo di preparare un dossier, interpretato da Stanley Tucci, il giornalista un po’ rugbysta interpretato da Mark Ruffalo, lo stesso Keaton –, mettendo al centro giornalisti in quanto esseri umani al pari delle vittime, si delinea meglio ancora una sorta di piccolo manifesto contro tutte le omertà. Il film è proprio una disamina del meccanismo che vi conduce.
Omertà che coinvolge anche il giornalismo stesso. L’inchiesta era stata insabbiata da Robinson prima di essere rilanciata. Se il giornalismo è sempre più criticato per conformismo, pavidità, superficialità o addirittura contiguità con i poteri forti, il racconto di questa inchiesta deve far riflettere tutti. Lo stesso Robinson, ospite insieme a Keaton alla presentazione del film a Roma, ha sottolineato come il giornalismo sia oggi troppo soggetto, per colpa degli editori e per non consapevolezza dei lettori, alla notizia veloce, d’effetto, spettacolare o facilmente aneddotica, influenzato dal fatto che la ricerca costante di notizie “curiose” sia lo strumento per i continui tagli al giornalismo d’inchiesta. Un tipo di giornalismo che, al tempo stesso, è quello che il lettore si attende di più.
In conclusione, forse non è inutile dire che spesso il giornalismo è il problema. Ma anche la soluzione.
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