A Locarno, due film che fanno della tragedia un inno alla vita, ma al tempo stesso divertono e appassionano lo spettatore, si sono rivelati due film politici: il primo, Comboio de sal e açucar, arriva dal Mozambico, e l’altro, Al Ma’ wal khodra wal wajh El Hassan, dall’Egitto.

Comboio de sal e açucar, dello scrittore e poeta mozambicano Licínio Azevedo, presentato in piazza Grande, è una bella sorpresa e risponde alla domanda: come fare un western ambientato nell’Africa dei nostri giorni senza che sembri un gioco offensivo? Lo stesso Azevedo, nell’adattare il suo omonimo romanzo, ha dichiarato di essersi ispirato ai western americani, in particolare a quelli di George Stevens.

Un western della guerra fredda

Il merito del regista, che ha lavorato con personalità come Ruy Guerra, Jean-Luc Godard e il cineasta antropologo Jean Rouch, è quello di averlo fatto con umiltà, dimostrando prima di tutto sensibilità alla causa che il film vuole difendere: ricordare a un più vasto pubblico quella che fu la terribile guerra civile del Mozambico e la difficile ricostruzione del paese alla fine della guerra fredda, dove Unione Sovietica e paesi occidentali, in nome di ideologie opposte ma con pratiche spesso simili, giocavano a scacchi con gruppi di paesi suddivisi tra i due blocchi.

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Ambientato nel 1989, Comboio de sal e açucar racconta la corsa eroica, a bordo di un treno arrugginito da Nampula al Malawi, di un gruppo di civili composto da uomini, donne e bambini, scortati da militari, con l’obiettivo di scambiare sale con zucchero, modalità di sostentamento fondamentale per le donne e le loro famiglie. I personaggi esprimono tutti verità e forza romanzesca, in particolare proprio i personaggi femminili, tra i quali spicca quello della giovane infermiera dallo spirito fieramente indipendente, in viaggio per raggiungere il nuovo ospedale.

Come in un buon western, la corsa del treno è interrotta da incidenti sul percorso o da gruppi di ribelli, che qui prendono il posto dei canonici banditi. I rivoltosi uccidono e devastano le varie località, che si mutano in luoghi fantasma. Importante il lavoro sui caratteri diversi dei personaggi, sia tra i civili sia tra i militari. E se alcuni di questi ultimi hanno un codice d’onore, ad altri non difetta la cultura della sopraffazione e del dispotismo.

Non manca una certa crudezza alla Sergio Leone, ma senza esagerazioni. Facendo grande uso del fuori campo riguardo alla rappresentazione della violenza, Azevedo sembra quasi un Leone pudico: gli splendidi scenari africani aiutano a esprimere una poesia malinconica paritaria all’espressione di una speranza di rinascita, dando forza e dignità a un bel western dei poveri, degli ultimi della terra.

La naturalezza della vita

Espressione di desiderio di vita, quella del film di Azevedo. E dopo tanti film che hanno trattato del desiderio di vita malgrado la morte, parliamo di un ottimo lavoro, presentato nel Concorso internazionale, con la possibilità di essere premiato dalla giuria, che è il trionfo della rappresentazione del movimento della vita in tutta la sua bellezza: Al ma’ wal khodra wal wajh El Hassan (titolo internazionale: Brooks, meadows and lovely faces) dell’egiziano Yousry Nasrallah, classe 1952, come egiziana è per intero la produzione.

Una famiglia grande quanto un quartiere. Si potrebbe sintetizzare così la varietà caleidoscopica di tipologie fisiche, modi d’essere, vestiti colorati che si susseguono a ritmo abbastanza vorticoso, senza mai essere però faticoso o stucchevole. Pare sempre di stare dentro a una festa, eppure è la narrazione di una famiglia piena di difficoltà (non manca nemmeno un omicidio) che gradualmente precipita nel ricatto di un usuraio.

La famiglia gestisce infatti un’azienda di catering specializzata in ricevimenti e l’affarista cerca d’impadronirsene. Ci riuscirà e al tempo stesso non ci riuscirà, perché la famiglia, forse metafora del popolo egiziano, è indomita. Caotica telenovela raffinata e popolare assieme, con attori belli ed eleganti anche quando sono brutti, con egiziani della borghesia più legati alle tradizioni ed egiziani più occidentalizzati, quello di Nasrallah è come sempre un cinema della rappresentazione, un cinema teatrale che porta in sé la naturalezza della vita.

Come Azevedo, Nasrallah lascia la violenza fisica sostanzialmente fuori campo

C’è una grande l’eleganza nei continui movimenti di camera, ampi e ariosi, e nelle carrellate, che sono quasi il paradigma di questa capacità di unire in una cosa sola la festa della vita con la festa della rappresentazione. Yousry Nasrallah è l’erede più patinato, ma comunque genuino e vitale, del cinema popolare colto di Youssef Chahine, il grande regista egiziano scomparso nel 2008 a 82 anni (di cui in Italia uscì per esempio l’ottimo Il destino, sulla figura del filosofo dell’antichità Averroè, che valse al cineasta minacce di morte da parte dei fondamentalisti islamici).

Se quello quello di Chahine è un cinema più poetico, Nasrallah ci regala uno splendido finale, fintamente commerciale. Alla festa conclusiva, dove la famiglia finge di aver abboccato, alla presenza delle autorità civili e militari, avviene la messa in scena della verità e quindi lo smascheramento dell’affarista: arrivano in massa conoscenti e componenti del quartiere. Il popolo, quello sporco e vero, irrompe nella messa in scena.

La reazione della moglie dell’affarista non cambierà nulla. Anzi accentuerà l’esplosione di anarchia gioiosa e festosa del finale. Morale: anche da quell’imprevisto, il popolo ne esce vincitore grazie alla sua arte di vivere. Come Azevedo, Nasrallah lascia la violenza fisica sostanzialmente fuori campo, e, nel contesto dell’Egitto attuale, con Al ma’ wal khodra wal Wajh El Hassan compie a suo modo un atto politico, realizzando un inno alla festa della vita o, se preferite, alla vita come festa continua malgrado tutto.

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