Dopo la satira molto divertente di Ruben Östlund, la proiezione gomito a gomito del nuovo lungometraggio di David Cronenberg, 79 anni, e di quello del sudcoreano Park Chan-wook, ha dato uno scossone ulteriore al concorso, anche se entrambi i film, ma soprattutto il secondo, potranno aver irritato alcuni perché alla visione possono forse risultare un tantino complicati. Sono però complicazioni, un po’ come quelle di un giallo, che più le si affronta e approfondisce e più il fascino e la profondità dei due film aumenta.
Ma è Crimes of the future di Cronenberg a spiccare con nettezza. Il maestro canadese, dopo otto anni di assenza dal grande schermo, fa un’operazione stranissima: riutilizza il titolo del suo secondo film, realizzato nel 1970, pur con l’intenzione, esplicitamente dichiarata, di non farne un remake. Tuttavia riesuma dal passato della sua giovinezza un titolo che contiene la parola futuro. Pare emblematico per un artista ritenuto profetico sul divenire corpo della macchina e, come in uno specchio, sul divenire macchina del corpo umano. Così come sembra suggerire un significato segreto. Ci sarà modo di essere più dettagliati al momento dell’uscita in sala ma è evidente l’intenzione di riallacciarsi (dopo diversi anni in cui il suo cinema era mutato su un registro più realista) al momento in cui è nato artisticamente, con l’horror e la fantascienza – seppure atipiche – inizialmente in piccolissime produzioni e che sembrava essersi chiuso con eXistenZ (1999).
Questo suo mutare continuo, e su una modalità anche reversibile, non deve stupire visto che nessun regista più di lui ha messo la mutazione al centro della propria arte in quanto questione centrale della civiltà contemporanea, del suo (non) divenire.
Per la verità Crimes of the future versione 2022 presenta analogie importanti con il suo “antenato” del 1970, tra cui un virus pervasivo. Si passa dalla clinica del dermatologo Adrian Tripod e al suo “cancro creativo”, dove si asportavano tumori e i relativi organi a getto continuo, all’artista Saul Tenser, interpretato da Viggo Mortensen, il quale fa crescere nuovi organi all’interno del proprio corpo come parte della “sindrome da evoluzione accelerata” – una malattia dilagante che causa mutazioni continue – come momenti di performance art. Il tutto in un mondo neomedioevale colpito dalla catastrofe climatica: lo stesso Tenser, con il capo quasi sempre coperto, ha un vestiario a metà tra il lebbroso e il monaco. Gli spettacoli ai quali assiste il pubblico sono agghiaccianti e ipnotici insieme. Il concetto performativo espresso da Tenser che consiste nello scoprire e asportare davanti al pubblico le parti mutanti del suo corpo – coadiuvato dalla sua compagna Caprice (Léa Seydoux) che riesce a osservare e tatuare i suoi organi – è una vera e propria “ideologia”. L’ultima. Quella del corpo ormai svuotato di senso o, come detto nel film, di ogni suo “significante”, terminologia fondante dell’analisi critica sull’arte.
È fascinoso questo caos delle forme in cui un mondo zombie cerca disperatamente di mettervi un qualche ordine
È una “body-art” – simbolicamente un’arte vitale – che qui si confonde con un’organicità in mutazione inscindibile dalla putrefazione, in altre parole dalla morte. E questo è vero fin dall’inizio, con il corpo di un bambino.
Sono molti gli echi all’opera del regista, ma in questa strana dimensione disadorna eppure suggestiva, siamo dalle parti dell’adattamento di Il pasto nudo di William Burroughs, della Tangeri dislocata in un mondo parallelo, “altro”.
L’artista torna sulla propria arte e ci dice che il crimine verso se stessa l’umanità l’ha già consumato. La dimensione autoreferenziale ha qui un senso profondo. È come l’ultimo avvertimento. Forse siamo già morti e non ce ne accorgiamo. Non possiamo far altro che leggere e riguardare le cose di quando eravamo morenti ma ancora vivi. Qui si mangia la plastica così come nel mondo, quello reale e non quello trasfigurato al cinema da Cronenberg, le persone sembrano dei format che guardano film giocattolo, film di plastica. Quanto all’erotismo, per Cronenberg non resta che la vivisezione di mutazioni della morte, non della vita. Inevitabilmente claustrofobico, è fascinoso questo caos delle forme in cui un mondo zombie cerca disperatamente di mettervi un qualche ordine.
Cronenberg parla di sé, della sua arte, di Hollywood grande mercificatrice e assassina dell’arte, cioè di se stessa (la polizia segreta del National organ registry). E così facendo parla di noi tutti come mai forse prima. E come nessun altro lo ha mai fatto meglio prima. Per la prima volta e forse l’ultima.
Decision to leave di Park Chan-wook ci regala un film vitale di un regista che in tanti credevano ormai precipitato nella voragine del sadismo di maniera e fine a se stesso. E di precipizio qui si tratta, in alta montagna.
Un ricco imprenditore precipita da uno strapiombo di montagna e un detective di polizia deve decidere se la giovane moglie cinese sia sospettabile di omicidio oppure se si tratti davvero di un incidente. A ogni nuovo interrogatorio non è chi lo subisce a barcollare ma chi lo gestisce: il rigore si affievolisce e un misterioso sentimento di amorosa attrazione del detective verso la donna piano piano si fa strada fino a straripare. Nondimeno, sono il lavoro visivo e il montaggio a fare la vera narrazione e in modo sorprendente: quasi a ogni inquadratura di questo film incentrato sullo sguardo e sul “vedere” i personaggi si rivelano sempre dislocati altrove (o forse no). Un altrove inquietante e sorprendente, sempre diverso ma che forse è sempre lo stesso. Sono davanti a una grande vetrata – motivo ricorrente nel film – e un istante dopo l’azione riprende in un altro luogo, un’altra vetrata, il tutto gestito con notevole maestria, quasi ipnotica. È quasi uno spostarsi, uno scivolare tra porte diverse di realtà, e di finzione.
Una certa lunghezza è perdonata se si accetta di entrare in questa sorta di visione allucinata nascosta nelle pieghe del realismo più classico impregnata di Hitchcock ma anche, sul piano visivo, di certo cinema classico sudcoreano: le atmosfere sono forse la cosa più bella e raggiungono l’apogeo sulle scogliere, in mezzo all’acqua del mare i cui zampilli tra le rocce conferiscono alla tavolozza dei colori una dimensione quasi pastello suggellando definitivamente la dimensione fortemente onirica del film. L’impressione di un grande sogno.
Chi invece non è onirico per nulla è lo svedese Ruben Östlund nella sua ottima satira sul capitalismo e sulla borghesia di Triangle of sadness. Non sempre il suo cinema riesce a dare profondità all’immagine come vorrebbe e finisce per esser fatto della stessa pasta dell’oggetto della critica, cioè il mondo patinato e privo di sostanza della società di oggi, come avevamo già scritto da Cannes 2017 per il suo lungometraggio precedente, The square, vincitore della Palma d’oro.
Qui il regista, in un crescendo sempre più divertente, riesce a fare un unico falò della moda, degli influencer, del liberismo, della borghesia, della lotta di classe, della parità tra sessi. Una crociera tra ricchi sfocia prima nella farsa – il vomito collettivo provocato da una tempesta – poi nella tragedia mediante un naufragio che in definitiva è solo un’altra farsa, poiché questa società postmoderna è ormai incapace di incarnare la vera tragedia. Il clou è probabilmente la battaglia dialettica su Marx e Lenin tra l’anarchico comandante americano della nave, magnificamente interpretato da Woody Harrelson, e il magnate russo, cinico ma simpatico. Il problema vero, però, è il potere, in definitiva, il quale snatura la natura dell’uomo. E della donna.
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