Piacevolissimo e avvincente, intimo e collettivo, del tutto femminista e tuttavia universale perché privo di qualsiasi manicheismo ma anzi denso di sfumature quanto di atmosfere. È La notte del 12 del francese Dominik Moll che, dopo essere stato presentato a Cannes Premiere insieme ad altri titoli importanti come Esterno notte di Marco Bellocchio, arriva in sala dal 29 settembre grazie a Teodora Film.
Film noir che aggira il genere, pur lavorando notevolmente sulle suggestioni che suscitano i codici del genere, è basato su uno dei casi raccolti nel libro inchiesta di Pauline Guéna 18.3 – une année à la pj. Infatti ogni anno in Francia la polizia giudiziaria (la police judiciaire, pj, che dà il titolo al libro) apre più di ottocento inchieste giudiziarie per omicidio, e quasi il 20 per cento di queste resta irrisolto. Ma il film di Moll non ha nulla di didascalico pur essendo anche chiaro, esplicito e con un lato pedagogico più ancora che di denuncia. È in verità un film su un’energia negativa pervasiva nell’intera società. Quale?
“In realtà fu l’intera Dallas a uccidere il presidente Kennedy”. Questa frase di Madeleine Duncan Brown che per decenni fu l’amante del presidente Lyndon Johnson e madre del suo unico figlio maschio, al quale Johnson pagò tutte le spese sanitarie e gli studi finché fu in vita, è riferita all’energia folle e negativa che pervadeva la città – all’epoca la più violenta del paese per tasso di omicidi – ed esprime molto bene sia il tema del film di Moll sia la sua angolazione visuale. E questo al di là del fatto che corrispondano al vero le controverse affermazioni di Duncan Brown sulla partecipazione di Johnson a un complotto contro il presidente manovrato da petrolieri e armatori, dai quali era lui stesso terrorizzato, che avrebbero deviato segmenti delle operazioni clandestine contro Cuba.
Tre connotazioni diverse
Più esattamente, La notte del 12 è un film sulla circolarità del male. Ma che prende una connotazione diversa rispetto ad altri titoli sul tema, che si tratti di capolavori fondamentali, di opere importanti o di piccole ma innovative e coraggiose produzioni.
Tra i primi possiamo certamente mettere un film oggi di culto, non compreso all’epoca: La morte corre lungo il fiume (The night of hunter, 1955), unico film da regista dell’attore Charles Laughton in cui un predicatore a cavallo – tra le interpretazioni più significative di uno straordinario attore come Robert Mitchum – è in realtà l’uomo nero, un cavaliere oscuro che assedia progressivamente una fattoria. Film impietoso sul puritanesimo statunitense, ne capovolge i valori schematici del bene e del male, del bianco e del nero (il predicatore veste interamente di nero ma cavalca un cavallo bianco) e lavora sui simboli nell’unire l’intimo con la cultura dominante.
Tra i secondi citiamo un altro film che lavora su simboli e allegorie ma dalla connotazione del tutto intima: Il ritorno, esordio del russo Andrey Zvyagintsev e Leone d’oro a Venezia nel 2003, in cui un padre ritorna dal nulla dopo anni di assenza e porta i due figli, uno piccolo e uno adolescente, in un viaggio di conoscenza e iniziazione alla vita che si rivelerà estremamente conflittuale e non privo di violenza, sia fisica sia psicologica.
Infine nella terza categoria un buon esempio è L’odio esplode a Dallas (1962) di Roger Corman, storia tratta da un libro di Charles Beaumont su di un politico populista razzista che fomenta un clima terribile di odio contro la minoranza nera e l’integrazione scolastica a Caxton, una cittadina fittizia del sud degli Stati Uniti (il titolo italiano, posteriore, è insieme fuorviante e calzante). Film di psicosi sociale, ma certo non intimista, concepito in realtà nel 1961, primo anno della presidenza Kennedy, è un vero gioiello di un maestro del cinema di serie b, intesa come produzione a basso budget ma anche del tutto indipendente sia artisticamente sia politicamente: Corman e suo fratello dovettero impegnare la casa per produrlo perché le major erano impaurite e, benché girato nel Missouri invece che negli stati del sud, anni dopo sia il regista sia William Shatner – il capitano Kirk della serie Star Trek che interpreta il personaggio del politico – rivelarono il pessimo clima in cui si svolsero le riprese e il clima di intimidazione che ne pregiudicò la promozione al momento della sua uscita. Furono a dir poco degli intrusi, speculari al titolo originale del film (The intruder).
Qui, in La notte del 12, la dimensione dell’intimo si fa inestricabile con quella del collettivo, fino ad assurgere a una sorta di fotografia della realtà psicosociale in senso stretto.
Il film sarebbe quasi al limite dell’agiografia se non fosse per successivi colpi di scrittura ben cesellati
Una ragazza viene uccisa nel cuore della notte mentre rientra a casa dopo aver salutato la sua migliore amica. Lo spettatore vede e non vede l’assassino, quasi un fantasma. Questo mistero prenderà una connotazione metafisica, del resto è questa la caratteristica del noir. Ma fin da subito siamo nella dimensione intima. In quella della famiglia della ragazza, a cui i poliziotti portano la notizia, che distrugge in un sol colpo un nucleo familiare felice. E in quella dei componenti della polizia giudiziaria, con la sequenza d’apertura degli agenti che festeggiano il pensionamento del loro superiore e al contempo il suo successore. Il battesimo del fuoco, è il caso di dirlo, il nuovo giovane capo dallo sguardo dolce e di poche parole lo avrà proprio il giorno dopo quando sarà distaccato insieme ai suoi uomini per indagare in quella piccola località dove è avvenuto il terribile omicidio.
È tutto molto umano e molto semplice e i poliziotti sono colti dal regista nella loro semplicità di persone continuamente immerse in vicende terribili e dolorose. Il film sarebbe quasi al limite dell’agiografia se non fosse che attraverso successivi colpi di scrittura ben cesellati – in termini di dialoghi, situazioni, tagli di montaggio delle scene, inquadrature sempre perfette – emerge una realtà non così rosea nella comunità dei poliziotti, anche se il loro ritratto resta molto umano e rispettoso della loro interiorità. Mediante la fotografia di quel mondo di soli uomini che, come detto nel film, indaga su crimini compiuti da uomini contro le donne, emerge piano piano una fotografia della cultura e del sentire maschile, con i suoi dolori personali, come nel caso del poliziotto anziano tradito dalla moglie perché vuole rimanere incinta e che finisce a dormire prima in ufficio, poi dal suo giovane capo.
Una società modellata al maschile
Una deriva se non da barboni, quantomeno da parziali disadattati, così come lo sono le tante conoscenze maschili, avventure transitorie e spesso sovrapposte, della giovane vittima. Che siano dei gretti giovani baristi, dei rapper neri, dei culturisti violenti, dei marginali che vivono in un capannone adiacente al parco dove è avvenuto l’omicidio, si delinea un mondo triste di uomini giovani ma già vecchi, immaturi, incoscienti ed egocentrici, se non egomaniaci. Un mondo di soli uomini e inversamente di uomini soli, anche se non sempre per colpa loro, in cui la parte migliore, o meno peggiore, sembra quella della bolla degli agenti della polizia giudiziaria. I quali tuttavia si rivelano quasi tutti alle prese con la solitudine degli affetti, dei sentimenti, con il fallimento dei loro matrimoni. Un mondo fallimentare chiuso su se stesso che indaga su mondi chiusi, circolari, come quello della provincia anonima. Emerge così anche una fotografia dell’inconsapevole, quasi naturale, maschilismo figlio di una società modellata al maschile.
Una delle grandi finezze di scrittura del film, quasi un exploit, sta nel delineare lungo l’indagine il ritratto di una ragazza disinibita che con spensieratezza ama fare l’amore e si innamora facilmente. In altre parole emerge il ritratto che, secondo la logica maschilista, sarebbe quello di una ragazza facile che forse si è un po’ cercata quanto le è successo. Moll suggerisce gradualmente allo spettatore che è solo una questione di sguardo e che se lei fosse un lui i suoi comportamenti sarebbero letti in altro modo. Ed è il pianto quasi disperato della sua migliore amica, quella che lei ha salutato sorridente la sera della sua morte e unico personaggio umano tra le sue conoscenze, a ridarle dignità, a dirsi stanca ai poliziotti che le chiedono e richiedono delle sue avventure e a ricordargli che anche se le piacevano sia il sesso sia l’amore libero, era una persona buona e attenta che le manca terribilmente.
Ma gli agenti sono chiusi nella loro bolla circolare al maschile, come gli ricorda l’unica agente donna, dagli occhi dolci e dal volto curiosamente androgino, giunta nel gruppo in un secondo momento. E tuttavia sono tutti sinceramente sconvolti e addolorati per la vicenda che pare non volersi chiudere mai divorando tutti dal di dentro, compresa la giudice che spinge gli agenti a riaprire il caso anni dopo con nuove tecnologie e metodi d’indagine.
Ma il vero colpevole è il fantasma maschile che incombe sulla donna, su tutte le donne cosicché potremmo dire che La notte del 12 è tutte le notti, o i giorni, in cui si uccidono donne, in senso sia letterale sia figurato. È l’intero mondo maschilista, in altre parole, ad aver ucciso quella ragazza. E le altre. Per questo il film, che coniuga magistralmente tutti i registri sui quali hanno operato altre opere fondate sulla circolarità del male, è strutturato su un’ossessività circolare, fatta di strade piene di curve, che siano percorse a piedi o in auto, e di cui il paradigma è quella sequenza sul capo degli agenti che, solitario nella notte, si allena in bicicletta su una pista ciclabile inclinata, ovviamente circolare, il cui sguardo da dolce muta in glaciale ossessività. Un girare in tondo, espresso mediante un leit-motiv visivo che torna nel film ancora una volta circolarmente, a intervalli regolari e che all’inizio ne interrompe i titoli di testa. Rompere la circolarità è il chiaro messaggio finale.
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