Oggi fare della pop art, cioè della pittura con gli elementi più retrivi del fumetto popolare o con le grafiche e i loghi dei prodotti industriali, sarebbe scontato. E non invece un’operazione esteticamente sovversiva o di critica al consumismo, al degradarsi della società dominata da un capitalismo entropico, che la svuota di tutto il suo potenziale energetico, fino all’inevitabile collasso. Come succede nel mondo ideale, purissimo e di paccottiglia creato dal Zeus – anzi Giove, visto che siamo a New Rome – Francis Ford Coppola, uscito dal suo Olimpo dopo decenni di inattività per edificare il suo progetto più personale e segreto, a cui ha lavorato per decenni, Megalopolis. Qui l’entropia è intesa in senso prima di tutto culturale, intellettuale e ideale, che Coppola, folle ed eroico com’è sempre stato, trasforma in una megacittà luminescente, che equivale a una neorepubblica romana, alla ricerca di una grandiosità del kitsch che unisca il neoclassicismo dell’antica Roma con la Trump tower della New York di oggi.

In fondo gli Stati Uniti sono l’emblema del finto e del kitsch, almeno in occidente. A unire le piramidi di Las Vegas e le città sparse nel paese che si chiamano Venice o Rome è una sola filosofia culturale, urbanistica e architettonica. E in Megalopolis tutto si esplica tra grandiosità pomposa quanto visionaria e farsa di bassa lega, una festa forense che un mago ha elevato con un incantesimo a magico regno di una cristalleria fantasmagorica. Duplicità e opposizioni sono del resto la costante del film, che già dalla primissima inquadratura sono preannunciate quando vediamo, in parte sovrapposti e quasi intrecciati alla base in modo obliquo, un palazzo dallo stile neoclassico e uno dalle linee nette e rigidamente geometriche.

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Allora la continuazione della pop art fatta dal cinema non può che trasfigurare le modalità estetiche e produttive dei film Marvel, per criticarli dall’interno, ma penetrandovi come nei film di fantascienza si penetra in un buco nero. Questo osa Coppola, insieme a molto altro, e non posso che ribadire quanto scritto da Cannes. Arrivare cioè a fare dell’avanguardia trasfigurando il patinato, che si è fatto levigatezza priva della più piccola asperità, e ibridandolo poi con il kitsch e la meccanicità insita nei film Marvel. Cioè quel che per la cinefilia è l’innominabile in un senso quasi religioso.

Ma è proprio la rivista simbolo della cinefilia, i francesi Cahiers du Cinéma, all’interno di un ampio dossier dedicato al film, con lunga intervista al regista, a trovare una formulazione poetica e insieme compiuta di questo concetto, anche se forse meno evidente ai più: “…è un po’ come se vedessimo un film Marvel realizzato da Raúl Ruiz”, scrive il direttore dei Cahiers Marcos Uzal, citando il visionario regista franco-cileno, morto nel 2011, maestro della trasfigurazione poetica, che alla fine degli anni novanta riuscì perfino nell’impresa di una straordinaria trasposizione di Marcel Proust (Il tempo ritrovato, 1999).

E se Proust è sinonimo di ricerca del tempo perduto, in Megalopolis siamo nell’ossessione della temporalità: si cammina del resto a più riprese su un orologio gigantesco in cima alla città. A New Rome si muove un artista-architetto-politico-demiurgo romano ribelle capace di fermare e rimodellare il tempo come fosse materia, al pari di un personaggio Marvel: Cesar Catilina (Adam Driver), che insegue un grande sogno utopico e fa innamorare di sé Julia Cicero (Nathalie Emmanuel), figlia del suo rivale politico Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito), per restare ai tre personaggi principali.

In questa sorta di peplum postmoderno, Coppola, per usare le sue parole nell’intervista ai Cahiers, sposa l’idea, già espressa da altri, che gli Stati Uniti siano “in qualche modo una versione moderna dell’impero romano, con un sistema politico paragonabile: un paese che respinge per primo la monarchia, l’importanza del senato e dei senatori, ecc.”. Ma ironia vuole che abbia fatto il film “nel momento preciso in cui questo paese rischia di perdere la sua repubblica, e per le stesse ragioni di Roma”.

Infatti New Rome è travolta dal populismo. Quello del cugino invidioso, che vuole buttare giù l’intero sistema di potere – perché “arriva il momento in cui la gente non ci crede più, è allora che un impero comincia a morire” – ma solo per soddisfare le proprie frustrazioni accumulate e che si porta dietro orde rabbiose in stile Joker. E quello gradualmente sempre più positivo di Catilina, che si ricrea di continuo, anche dopo un attentato, grazie al Megalon da lui inventato, capace di rigenerare la materia organica e di generare materiale da costruzione. Si ricrea e crea di continuo perché tale è l’essenza dell’utopia e dell’arte. “Spero di ispirare il popolo con la mia opera”, dice. Ed è chiaramente Coppola che parla e che ci invita tutti a sognare un nuovo rinascimento, in cui l’artista, lo scienziato, l’architetto tornino a essere una sola cosa per uscire dall’impasse, respingere il collasso di civiltà e “diventare degli dei con la volontà della mente”.

Un sogno folle come lo sono stati tutti quelli della storia dell’umanità prima di diventare realtà, un sogno che qui emerge da un magma operistico. L’intero film è una sorta di super palco operistico, mutante perché instabile in modo congenito, una grande visione pensata come un sogno continuo, inteso quasi come un flusso di (nuova) coscienza e in cui a ogni passo dei personaggi tutto muta. Un sogno fatto di scenografie in trasformazione continua, proprio come l’utopia politica o l’artista che vuole sempre rivoluzionare: si va dalla Gotham City quasi parodiata dei Batman di Tim Burton (soprattutto il primo) al cinema di Terry Gilliam. Un overdose di estetica retrofuturista dalla quale emergono visioni surrealiste, ma anche angolazioni del mondo in cui il notturno dell’animo e quello del cinema si toccano alla perfezione. È impossibile non pensare, oltre a Raúl Ruiz, anche a due opposti ma grandi film come Annette di Leos Carax e Povere creature di Yorgos Lanthimos: un ex critico dei Cahiers du Cinéma, raffinato trasfiguratore della nouvelle vague in chiave surrealista; e un mestierante geniale che tende all’estetizzante surreale, ma che con una buona sceneggiatura tratta da un ottimo romanzo riesce a esprimere il suo meglio.

E poi c’è molto Orson Welles, da Quarto potere a Rapporto confidenziale. Ma la silhouette con il cappello nell’oscurità può far pensare tanto al Mr. Arkadin di Welles quanto a The shadow, personaggio centrale di molti programmi radiofonici, pulp e fumetti. Oltre a tanto cinema di Abel Gance, Kubrick, Fellini, Visconti, Godard, come riconosce lo stesso Coppola nell’intervista ai Cahiers. Il blob dilagante del falso inscindibile dal vero, del bluff inseparabile dalla sostanza vera, finisce per toccare perfino Shakespeare, cioè quanto c’è di più supremo nell’arte classica, citato più volte e fin dall’inizio: “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”.

Rivedendo Megalopolis dopo Cannes l’incanto è stato più forte. Un film immenso e spiazzante, che sarà digerito pian piano come altri del regista, a cominciare da Apocalypse now. Una follia da film-totale degli anni settanta, che riesuma l’energia di quel periodo per trasfigurare tutto quello che c’è oggi di più kitsch, senza remore. Importante anche perché finalmente abbiamo un grande film problematico, un crogiolo di quasi tutte le contraddizioni del mondo che osserviamo quotidianamente e che qui corrispondono alle contraddizioni con cui si è confrontato il cinema. Plasmate in un nuovo capolavoro, che non somiglia a nient’altro, pur essendo fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni del già visto. Megalopolis, il paradosso spazio-temporale perfetto.

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