Perché abbiamo tanto bisogno di storie? Perché guardiamo tre serie tv contemporaneamente e se separano in due l’ultima stagione di Mad men ci stiamo male? Questa fame di storie è sana o bulimica? E il cibo con cui la saziamo è sano?
La pistola prima o poi deve sparare
Non credo sia solo una strategia per vendere corsi di scrittura e palinsesti: se tutti dicono che il mondo ha bisogno di storie sarà vero. Cosa voglio rispondere? “No, guarda, il mondo non ne ha bisogno, preferirei annoiarmi e finire tutte le partite 0-0, se possibile senza tiri in porta”?
Vorrei parlare di uno sceneggiato, Olive Kitteridge, e del libro da cui è tratto, per cercare di capire meglio cosa vuol dire che abbiamo bisogno di storie, e se questo bisogno possa essere messo in discussione, o educato.
Olive Kitteridge è una miniserie in quattro puntate appena trasmessa da Hbo, tratta dal romanzo-in-racconti di Elizabeth Strout (Fazi 2009, premio Pulitzer e premio Bancarella). Ambientata nell’ultimo terzo del novecento in un paesino del Maine, microcosmo di case in legno sferzato dalle onde dell’oceano, racconta la famiglia, le frequentazioni e il brutto carattere di Olive, che è interpretata da Frances McDormand, la poliziotta incinta di Fargo (il film).
La riduzione televisiva del libro si apre con uno dei più potenti generatori di storie che un narratore abbia a disposizione: la scena del suicidio. La signora Kitteridge, scarmigliata, canuta, le guance incavate, incede nel bosco con una pistola avvoltolata in un panno. Trova il suo posto fra gli alberi, guarda il cielo pallido e vivo, cerca il coraggio per togliersi la vita. A questo punto, la scena del suicidio si interrompe, ed ecco un flashback: andiamo indietro nel tempo, di venticinque anni.
Da che noir è noir, la pistola inquadrata prima o poi dovrà sparare, e un flashback dopo la scena di un crimine servirà a capire chi è stato. Nei casi di suicidio, più che cercare un colpevole si cerca un motivo. Così il flashback dà il via a una complessa istruttoria che può avere un solo senso: capire chi è stato, cosa è stato, a portare una donna a riparare nel bosco per togliersi la vita.
Whodunit?
Gli americani, che da quando esiste Hollywood hanno fatto dell’inglese la lingua ufficiale delle storie o meglio ancora dei meccanismi delle storie (e infatti ho appena usato la parola “flashback”), hanno un termine per raccontare quei gialli in cui si deve scoprire il colpevole di un delitto: whodunit, che significa chièstato??? detto in fretta, con l’ansia di scoprire il colpevole.
Vorrei ragionare sull’incipit da whodunit di Olive Kitteridge e del modo in cui la serie, e il libro da cui è tratta, frustrano con successo il bisogno di storia e di trama a tutti i costi, senza farci perdere interesse.
Interrotta la scena iniziale, la scritta ci avvisa che siamo tornati indietro nel tempo. Ora è l’era di passaggio tra i sessanta e i sessanta, siamo ancora nel Maine, dove nella casa con giardino vista oceano i Kitteridge, Olive e Henry, vivono infelici insieme al figlio Christopher, preadolescente triste e strafottente. Da qui, si cominciano a raccontare storie varie, che si susseguono in un modo curioso che cercherò di raccontare riducendo al minimo gli spoiler.
Ecco come sono organizzati i quattro episodi di un’ora ciascuno. Nel primo, si raccontano due cose: il passaggio nella vita dei Kitteridge di una ragazza che viene assunta come commessa nella farmacia di Henry; e i rapporti tra Olive e un collega che insegna nella stessa scuola della protagonista. Finito. In quest’ora, scopriamo che Olive è una bisbetica.
Dice al marito, a cena, davanti a Christopher, per umiliarlo per i voti bassi in inglese: “Tuo figlio non capisce il sottotesto”.
Questa donna, cui i bambini spesso chiedono se è una strega, può essere ancora amata carnalmente, ogni tanto, solo perché “Henry Kitteridge cadeva preda di un accesso di incredibile frenesia, come se nell’atto di amare sua moglie si stesse unendo a tutti gli uomini nell’atto di amare il mondo delle donne, che racchiudevano nel profondo di se stesse l’oscuro e vellutato segreto della terra”. E poi, semplicemente, “lasciare Olive era impensabile, come tagliarsi una gamba”.
Il che ci ricorda che nella serie si era partiti dalla protagonista che fa per suicidarsi. È per questo che venticinque anni dopo Olive è andata nel bosco? Non lo scopriamo alla fine dell’episodio, e all’inizio del secondo siamo da un’altra parte. La premessa da whodunit esistenziale non è stata sviluppata, e la cosa comincia a sembrarmi geniale.
Com’è andata a finire???
Nel secondo episodio, invece di tornare indietro nel futuro, al bosco e alla pistola, ci spostiamo di qualche anno più avanti rispetto al primo flashback. Si racconta del figlio ormai grande, che domani si sposa, e di un ex studente di Olive tornato in città per fare una brutta cosa che non vi dico.
Le vicende dei due giovani ci distraggono al punto che ci siamo dimenticati il tentativo di suicidio. Forse il punto di questa serie non è quel tentato suicidio. Forse questa serie non ha trama. Allora perché sembra che ce l’abbia? Per quale ragione la vogliamo vedere tutta d’un fiato come se promettesse un’incredibile tensione narrativa e altrettanto scioglimento?
Nel terzo episodio, si cambia ancora: ci sono novità nella vita del figlio, qualche tempo dopo; poi ai Kitteridge succede una disavventura; e infine la vecchiaia presenta il primo conto. E non siamo ancora tornati nel futuro, al suicidio.
Nel quarto episodio…
Ma è inutile andare avanti: lo spoiler qui è dire che non ci sono spoiler, perché la banalità degli elementi della trama – incontri, separazioni, piccoli piaceri, traumi e morte – fa sì che vedendo questa serie si perda un po’ di quella passione un po’ tossica per le svolte, le sorprese, la preparazione della suspense, il bisogno di redenzione, il bisogno di intrecci telefonati che delineino chiaramente i bisogni dei personaggi dalla prima puntata e ci facciano ingolosire davanti ai possibili sbocchi narrativi.
Allora perché se ne rimane avvinti? Che altro ci dà Olive Kitteridge per soddisfare il nostro bisogno di storie?
Per raccontare una donna ci vogliono ore
Credo possa aiutare un’intervista a Frances McDormand in cui dice che al cinema ci sono pochi ruoli da protagonista per le donne, e in fondo, scherza, il motivo è che “novanta minuti non sono il tempo ideale per raccontare la storia di una donna”. (Dice pure, con impassibile ironia, “mi sono fatta una carriera intera come supporto ai protagonisti maschi. Un’ottima carriera, direi”). Ciò che McDormand ama del personaggio di Olive Kitteridge è che nei tredici racconti che compongono il romanzo, lei in certi casi è la protagonista ma in altri magari passa solo per la casa di altri protagonisti o viene menzionata, ma alla fine la conosci cumulativamente. “Credo che novanta minuti non siano abbastanza per una storia al femminile”. Bastano per le avventure da maschi, magari: “buddy movies, film d’azione, epica…” (se no, dice, hai le commedie romantiche, “ma se non sei George Cukor fai molta fatica a scrivere una bella storia, lì”). Le donne, dice, entrano in tanti modi nelle vite degli altri, molto più degli uomini. Se dobbiamo raccontare una storia di donne, quindi, “quattr’ore sono una buona durata. Sei ore è meglio. Dieci ore… Due anni… Le nostre storie sono circolari, sono complesse”.
Il film in tre atti; arriva la cavalleria; la redenzione dell’antieroe
Prima di vedere come si raccontano le cose con calma, prendendosi tutto il tempo che occorre, facciamo una deviazione per osservare un paio di illustri esempi negativi. Chi è curioso di sapere come continua la storia può andare al paragrafo successivo.
Avete presente quella sensazione che provate consumando prodotti come commedie romantiche e film d’azione, in cui sapete che è talmente chiara la posta in gioco che ora si tratta di aspettare con pazienza la scena d’azione di un quarto d’ora tanto la resa dei conti ci sarà quando l’eroe o antieroe eroico sarà appeso al cornicione e il suo nemico comincerà a levargli le dita dal cornicione una per volta? O quando la ragazza cammina spensierata per il West Village in attesa di andare a sbattere contro un bell’uomo? Ecco a cosa si riduce il bisogno di storie quando diventa pura macchina produttiva per consumi emotivi da saziare in fretta. Fast food di storie per la nostra domanda crescente, perché in effetti il bisogno ce l’abbiamo noi, non è imposto all’altro, sembra un bisogno vero, dovuto forse alla stranota fine del focolare, dei racconti dei nonni e così via.
A volte questo abbraccio anche umano tra domanda e offerta stritola alcuni autori che si trovano in mezzo. Due casi, scelti tra opere di valore e di successo:
1. Interstellar
Il film fantascientifico di Nolan è considerato un nobile tentativo di fare cinema d’autore per le masse, con rispetto, pellicola, ambizione, gusto per i grandi sentimenti, e tanta famiglia. Tutto vero, ma c’è una cosa che ti fa sentire un pollo in batteria mentre guardi la seconda parte del film: a un certo punto accetti l’idea che l’agricoltore texano mandato in un wormhole a cercare nuovi pianeti e poi in un buco nero a cercare un’altra dimensione, invece di svanire nell’ignoto e contemplare il mistero dell’essere, come succede quando gli autori capiscono che hanno alzato la posta al punto che non si può tornare indietro (Solaris; 2001 Odissea nello spazio), tornerà indietro e si farà pure una birretta. Era un’impresa completamente fuori portata in cui anche solo morire aprendo una via all’umanità sarebbe eroico, ma purtroppo, per la legge dei tre atti, ci tocca tornare alla base vivi.
I tre atti, la struttura narrativa che è un po’ la Coca-Cola per la sete di storie, trionfante nel mondo e adatta a tutte le occasioni, continuano a usare il tuo desiderio di storie per farti fare sempre lo stesso giro. Stavo qui, poi c’è stato un mezzo casino, poi sono tornato.
2. Boardwalk Empire
Uno dei motivi per cui le serie tv hanno conquistato le nostre serate è che i tre atti ci avevano un po’ asfissiato e ci servivano altre storie, diverse, con più respiro del boomerang narrativo descritto sopra. Poi però qualcuno ha perso la pazienza con cui le grandi serie sviluppano i personaggi, e si è cominciato a girare episodi pilota da cui dovevi capire dal primo minuto quale percorso toccava ai protagonisti. Per sicurezza, casomai ti venisse voglia di cambiare canale prima di aver capito la profondità psicologica dei nostri eroi o antieroi del presente o del passato.
L’esempio che mi ha colpito di più negli ultimi anni è stato il pilota di Boardwalk Empire, diretto e prodotto da Scorsese. All’epoca ne avevo scritto così su Studio:
Vediamo come Scorsese gestisce i primi venti minuti: per dire che Buscemi sindaco è corrotto, Scorsese lo porta alla riunione di un’associazione di donne virtuose a tenere un discorso ipocrita e strappalacrime contro l’alcol. Di seguito, Buscemi è a cena con poliziotti e politici corrotti, e dichiara che con l’avvento del proibizionismo, quella sera stessa, l’alcol non cesserà: spetterà a loro, i corrotti, l’onere di tenere la città ‘bagnata come la passera di una sirena’. Tutti ridono: che avidi!
Per dire che Buscemi in fondo però ha un cuore, la seguente scena l’indomani mattina: il sindaco si sveglia nel letto con l’amante zozzissima Paz de la Huerta, che anche addormentata tiene un pollice sensualmente inserito sotto il labbro superiore e mormora arrapata a sottolineare che la sua presenza significa sempre e solo che Buscemi è un dannato. Ma ecco: il sindaco è chiamato a ricevere una donna povera e incinta in cerca di lavoro. Il marito della donna gioca e beve. Dalle chiacchiere capiamo che Buscemi ha un lato buono: soffre per la morte della propria moglie e vede nella donna incinta qualcosa di puro e vero. Si impegna a trovarle un lavoro. Qui Buscemi ha la faccia sofferta e sensibile. Le regala dei soldi. Nel frattempo è raggiunto da Paz de la Huerta, che lo fa vergognare, mostrando alla donna incinta, con le sue smorfie peccaminose, il peccato in cui Buscemi è sprofondato.
Se non fosse chiaro che la morte della moglie ha impedito a Buscemi di perseguire la propria tendenza al bene e alla pietà, nella scena successiva Scorsese ci chiarisce le idee: Buscemi passa sul lungomare e vede un neonato carinissimo e indifeso nel negozio di incubatrici, con l’infermiera che lo coccola. Poi, un ritratto degli occhi di Buscemi che guardano il mare, sensibili, azzurri, tristi.
Sono tutti trucchi e li senti dal primo istante. Non avremo la libertà di conoscere questi personaggi perché ci hanno già spiegato subito come usarli: non ci sfuggono. Ci fanno subito “capire la questione morale”, la grande parabola universale, la grande scelta tra bene e male.
E quella del proibizionismo e del sindaco ambivalente è senz’altro una grande storia da raccontare. Solo che a chi l’ha raccontata non pareva così grande, e infatti ha dovuto subito puntellarla come si deve con delle grandi telefonate al pubblico.
Cosa c’è sotto le storie
Entrambi i casi, è importante dirlo proprio prendendo a esempio opere notevoli, mostrano la paura di ciò che sta sotto le storie. Non credo di poterlo nominare direttamente, ma alcuni campioni delle strategie narrative del libro di Elizabeth Strout mi possono aiutare.
Questo libro trasforma in storia e trama ogni istante, per potersi permettere di non avere una trama. Ecco alcuni esempi di come Strout produce dei piccoli scoppi di trama vera, senza trucchi:
1. Il rimpianto come sostituto della trama
Il rimpianto è trama retroattiva. Avere il coraggio di mostrare una donna che rimpiange il marito poco amato è un buon sostituto delle scene da film in cui lui corre disperato all’aeroporto per dichiararsi a lei che è in partenza, e che lui ha capito troppo tardi di amare.
C’erano giorni, se lo ricordava, in cui Henry le teneva la mano mentre tornavano a casa, due persone di mezza età, nella pienezza degli anni. Si erano resi conto della gioia tranquilla di quei momenti? Molto probabilmente no. La maggior parte della gente non era abbastanza consapevole della propria vita mentre la viveva. Ma ora lei aveva quel ricordo, un ricordo sano e puro. Forse erano il suo ricordo più puro, quei momenti sul campo da calcio, perché ce n’erano altri in lei che non lo erano.
2. Il riassunto vertiginoso come sostituto della trama
Qui c’è un uomo che salva una donna caduta in mare. Questa piccola storia secondaria è come una microtrama: il riassunto della vita di lei, come lui la conosceva da piccola e come la vede adesso che sta annegando, ci consegna in dieci righe un’intera saga di avventurieri aggrappati ai cornicioni per ore e ore di suspense in cui comunque sai che vincerà il bene.
…mentre la fissava negli occhi aperti tra il turbinio dell’acqua salmastra, col sole che dardeggiava attraverso ogni onda, pensò che avrebbe voluto che quell’istante durasse per sempre: la donna dai capelli scuri sulla riva che gridava aiuto, la ragazza che tanto tempo prima saltava la corda come una regina, e che ora lo stringeva con una violenza pari alla forza dell’oceano: che mondo folle, assurdo, incomprensibile! Guardala, come vuole vivere, guarda come tiene duro.
Il mondo è assurdo e incomprensibile (e avvincente) perché prima saltavi la corda ed eri bambina e ora sei donna e stai annegando e cerchi di vivere.
Oppure c’è la pianista che ubriaca telefona per la prima volta in vent’anni al suo amante sposato:
Mai una volta, in ventidue anni, gli aveva telefonato a casa, anche se aveva imparato a memoria il numero molto tempo prima. Ventidue anni, pensò, mentre ascoltava lo squillo del telefono; molti lo avrebbero considerato un tempo molto lungo, ma per Angie il tempo era grande e rotondo come il cielo, e cercare di attribuirgli un senso era come tentare di dare senso alla musica e a Dio…
3. La profezia come sostituto della trama
Invertendo il meccanismo, ecco Olive che guardando una foto del figlio ancora bambino gli annuncia cosa gli capiterà da grande. L’improvvisa irruzione del passato, che quasi gli toglie innocenza, è più doloroso della morte telefonata dell’unico membro afroamericano dell’equipaggio di un’astronave inviata a salvare la terra.
Olive fece scivolare di nuovo le foto nel cassetto; il suo sguardo cadde su un’immagine di Christopher, scattata quando non aveva ancora due anni. Aveva dimenticato quanto sembrasse angelico, come una creatura appena uscita dal guscio, come se ancora la sua pelle non si fosse formata, come se fosse fatto di luce e chiarore. Sposerai una bestia e lei ti lascerà, pensò Olive. Ti trasferirai dall’altra parte del paese e spezzerai il cuore a tua madre. Chiuse il cassetto. Ma non pugnalerai una donna ventinove volte.
Rimpianto, riassunto e profezia sono quindi tre dei modi che usa Strout per darci abbastanza vita da potersi risparmiare i trucchi del mestiere. A questo punto, è libera di costruire personaggi e rapporti veri: che possono svilupparsi in modo circolare come nella vita, senza che il bisogno di redenzione o di scioglimento vada contro quel che sappiamo essere la nostra natura di persone relativamente difficili da modificare.
1. Rapporti: madre e figlio
Negli anni, tornano di continuo i pensieri irrisolti di Olive sul figlio:
Mai, neppure in cent’anni, Olive rivelerebbe a quella donna, o a chiunque altro, quanto era stato terribile il momento in cui Christopher era tornato a far visita a suo padre presso la casa di cura, quanto era stato brusco con lei, o il fatto che se n’era andato prima del previsto. Una donna, perfino dell’età di Marlene Bonney, poteva aspettarsi un giorno o l’altro di sopravvivere al marito (…) ma non poteva aspettarsi di allevare un figlio, aiutarlo a costruirsi una bella casa nei dintorni, ad avviare uno studio da podologo e poi vederlo sposarsi e trasferirsi dall’altra parte del paese e non tornare mai più a casa, neppure dopo che quella bestia di sua moglie lo aveva abbandonato. Nessuna donna, nessuna madre poteva aspettarselo. Vedersi rubare un figlio.
Anche qui, è il mistero del tempo, il passato che abita il presente, a creare una dinamica, e una trama, che sentiamo come ben più forte di qualunque trucco narrativo generatore di attesa. Qui il rapporto madre e figlio è guardato dal filtro più tremendo: nel Tempo una cosa era in un modo, e ora è in un altro.
2. Personaggi. Henry
Paragonabile allo sposo-vittima di Stoner, altro romanzo di successo che parla di famiglie americane tristi, Henry Kitteridge è però a seconda degli episodi 1) una persona veramente buona e generosa o 2) uno che ha un falso sé colossale, non conosce i propri bisogni, è viscido. Alla fine della serie io e la mia fidanzata non sapevamo dire se Henry amasse davvero Olive. Le descrizioni che dà di lui il libro sono molto utili a continuare a non capire. Comunque, Olive nella serie chiama il marito “consolatore di vedove”, il che dice molte cose.
Ascoltare faceva parte della natura di Henry, e molte volte nel corso della settimana gli capitava di ripetere: ‘Dio mio, sono così dispiaciuto’, oppure: ‘Ma guarda, non è incredibile?’. Dentro di sé soffriva della silenziosa tensione di un uomo che per due volte nella sua infanzia aveva assistito agli esaurimenti nervosi della madre, la quale per il resto gli aveva sempre voluto un bene esasperato.
Ancora la vertigine: una cosa del passato rende misterioso un fatto del presente – in questo caso, una qualità di Henry, saper ascoltare.
Se qui sembra buono, ecco un’altra scena dove la forzatura della sua generosità ci rende perplessi: Henry pensa alla sua commessa e al giovane marito di lei, se li immagina a casa mentre si raccontano la giornata passata: “Li vide con la mente mentre si raccontavano gli eventi della giornata. Denise avrebbe detto: ‘È un capo con cui è facile lavorare’, ed Henry le avrebbe risposto: «A me è molto simpatico’.”
Questa voglia di piacere a volte ci pare falsa, a volte vera, come non ci fosse fretta di decidere cos’è Henry (trattamento riservato di solito a chi amiamo). Eccolo alla fine delle nozze del figlio: “Henry è fermo sulla porta, il volto luminoso e felice ora che ha terminato il giro dei saluti e si è dimostrato il genere di uomo che tutti adorano, un tesoro”. Questo bisogno di essere adorato ci fa ricordare l’altro brano, sugli esaurimenti nervosi della madre.
Ma poi lo ritroviamo indeciso in amore, tutto calcolo e debolezza quando si tratta di aprire il cuore a una possibile amante: “Parlarono poco mentre i giorni passavano. Ora Henry avvertiva in lei una freddezza inesorabile, accusatoria. In che modo l’aveva spinta ad aspettarsi qualcosa?”.
Torniamo nel bosco
Poi alla fine Olive ci torna nel bosco, i venticinque anni di flashback sono passati. Non posso mettermi a spoilerare, però quando finalmente la scena si svolge fino in fondo, ho davvero la prova che la struttura whodunit escogitata dalla produzione per convincerci che la storia comune di una donna comune avrebbe avuto una trama appassionante, con una caccia nel passato a trovare il colpevole della sua depressione, era uno scherzo raffinato per dirci: la volevi la storia? Ti ho mostrato la pistola, adesso siediti comodo che ti devo dire tutte le altre cose, spero di aver ottenuto la tua attenzione.
E ora che ha la nostra attenzione, ci fa capire cosa vuole dirci il nostro bisogno di storie: la vera storia non è quella fra te e gli altri ma quella fra te e il mistero assurdo di essere vivo e di essere imprigionato nel tempo.
Cos’è una storia
Una volta, mia nonna, poco più che ottantenne, mi raccontò la storia formidabile di una sua amica che aveva sposato l’uomo che le aveva fatto da tutore quand’era rimasta orfana. La donna aveva sposato l’uomo che l’aveva cresciuta non appena lui era rimasto vedovo. Le ho detto per anni che una volta o l’altra me l’avrebbe raccontata di nuovo e io l’avrei registrata per poterla scrivere.
Ma la storia da raccontare non è questa, è un’altra: quando mia nonna a novant’anni cominciò a perdere colpi e si rendeva conto di non riuscire più a seguire il filo delle conversazioni e dei pensieri, e che ormai anzi nei nostri incontri soprattutto ci tenevamo per mano, un pomeriggio, dalla sua poltrona, mi disse una cosa che mi fa ancora piangere appena ci ripenso: “Mi dispiace”, balbettò, sorridendo, perdendo fiato, guardandomi negli occhi: “non ti ho più raccontato quella storia che volevi registrare”. Ora, voleva dirmi e me lo diceva con gli occhi, non te la posso più raccontare. E questa è la storia veramente incredibile, che mi fa ancora piangere.
Francesco Pacifico è nato e vive a Roma. Il suo ultimo romanzo è Class. Vite infelici di romani mantenuti a New York (Mondadori 2014). Scrive su IL, la Repubblica, Studio e Ultimo Uomo.
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