Le piccole isole del Mediterraneo, da Lesbo a Lampedusa, rappresentano il confine sud dell’Europa, quello che nel centro o nel nord del continente si sta facendo finta di non vedere. Oltre, si stendono tratti di mare non troppo grandi e poi compaiono di nuovo terre e paesi, l’altra sponda del mare nostrum, dalla quale arrivano a decine di migliaia, in questi primi mesi del 2016, i profughi che cercano di raggiungere l’Europa.

E se il primo viaggio del pontificato di Francesco è stato a Lampedusa, sabato 16 aprile il papa sarà a Lesbo, dove si trova il centro di accoglienza di Moria capace di accogliere non più di mille persone, ma che invece ospita circa tremila profughi. Nel frattempo continuano gli sbarchi anche se è cominciata la pratica dei rimpatri, cioè dei respingimenti in Turchia in base all’accordo stretto tra Ankara e l’Unione europea.

Francesco andrà sull’isola insieme a Bartolomeo, patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli (Istanbul), e all’arcivescovo ortodosso di Atene, Hieronymus; incontrerà i migranti, pregherà per i morti in mare, e proverà a far cambiare rotta all’Europa in materia di diritto d’asilo, accoglienza e cooperazione internazionale.

Intanto nei pressi di Idomeni, minuscola località al confine tra Grecia e Macedonia, la polizia di Skopje spara lacrimogeni contro quelli che cercano di passare il confine; l’Austria, da parte sua, sta provando ad alzare una barriera al Brennero, appena frenata dalle contestazioni di Roma e Bruxelles, in Ungheria e Polonia di fatto le frontiere sono già state chiuse o quasi. Schengen non esiste già più: le merci passano gli esseri umani no. È la faccia triste e oscura della globalizzazione, quella che papa Francesco aveva chiamato, fin dal principio del suo pontificato, “la globalizzazione dell’indifferenza”.

La storia delle migrazioni insegna che chiusa una strada se ne apre un’altra

Di certo la rotta balcanica, una delle principali vie di fuga dal Medio Oriente (raggiunta anche dai profughi subsahariani) verso l’Europa, è ormai segnata da fili spinati, muri, barriere, polizia in assetto di battaglia. Non si passa, è il messaggio. Ma come insegna la storia delle migrazioni di questi anni – e come ripetono instancabilmente alla Caritas – chiusa una strada se ne apre un’altra, in questo caso quella che dalla Libia porta all’Italia, e non a caso sono innumerevoli gli interventi di salvataggio messi in atto in queste settimane dalla marina italiana.

Così, alla divisone tra nord e sud del mondo, si aggiunge ormai anche quella tra nord e sud dell’Europa, dove la prima scarica sulla seconda il problema, e da qui si cerca – con l’appoggio di Bruxelles – di esportare il problema in paesi come la Turchia e la Libia, magari dando in cambio aiuti economici e politici.

È allora in questo contesto che va inquadrato il viaggio del vescovo di Roma nell’isola greca; una parte dell’opinione pubblica italiana e internazionale ha spesso guardato con sufficienza a questo papa argentino troppo “fissato” con il tema dell’immigrazione. Contava, si diceva, il fatto che anche lui fosse figlio di italiani emigrati all’estero in cerca di fortuna, e poi si valutava con sospetto l’eccessiva enfasi posta dal papa sul problema, come se Francesco abbandonasse il suo ruolo di guida spirituale per assumere quello di leader politico, poco pragmatico e troppo ideologico. Una critica dietro la quale si nascondeva il fastidio per il ritorno prepotente sulla scena della dottrina sociale della chiesa e di una lettura radicale del Vangelo di cui Francesco, a torto o a ragione, è comunque portatore.

Non solo: in qualche modo il papa del sud aveva visto con anticipo che proprio lì, sulla questione migratoria, si misurava l’entità della crisi sociale e di governance a livello globale. Una crisi di sistema finanziario ed economico in primo luogo, ma anche dovuta – nella lettura della Santa Sede – al prevalere di interessi parziali, di gruppi di potere, sui diritti, sul bene da condividere soprattutto con i più poveri. Da qui le parole ripetute dal papa contro i trafficanti, i costruttori e i venditori di armi e chiunque tragga vantaggi dall’estendersi delle guerre: stati, gruppi terroristici, governi fantoccio, grandi potenze mondiali o regionali.

D’altro canto l’impennata di flussi migratori di questi primi mesi del 2016 è dovuta, secondo le organizzazioni impegnate nell’accoglienza, in modo decisivo al conflitto siriano, alla violenza a cui le milizie di Bashar al Assad o i gruppi armati fondamentalisti sottopongono la popolazioni civile.

Francesco lancia un monito all’Europa, un appello realistico alla ragione, all’azione comune, alla rinuncia al nazionalismo

A tale impostazione Francesco aggiunge, facendo leva sull’universalità della chiesa, i princìpi di misericordia e solidarietà che devono riguardare ogni persona; traccia quindi con l’esempio la strada di un cammino alternativo a quello rassegnato e drammatico che si sta seguendo. Per tale ragione a Lesbo, come in altre occasioni del resto, sarà accompagnato dai leader del cristianesimo orientale, le chiese ortodosse, a significare che pure nella diversità si possono compiere percorsi con obiettivi comuni, di pace e giustizia.

È un ecumenismo di fatto, non tanto da commissione teologica quanto da applicazione del Vangelo. Allo stesso tempo l’attenzione ai profughi contiene l’indicazione di una richiesta di giustizia, che non può essere liquidata “restituendo” donne e uomini in fuga dalle guerre a paesi che violano regolarmente i diritti umani, si tratti della Turchia o della Libia.

Intanto, come ha spiegato il vescovo Fragkiskos Papamanolis, capo della piccola chiesa cattolica greca, all’Osservatore Romano, la popolazione che pure ha dimostrato un impegno umanitario eccezionale, ora comincia a temere per le rivolte nei campi profughi, tanto più che si sta avvicinando la stagione turistica, fonte di risorse primaria per la Grecia.

Francesco, dunque, lancia un monito all’Europa, un appello realistico alla ragione, all’azione comune, alla rinuncia al nazionalismo cieco e foriero, come già in passato, di sventure; chiama i governi del vecchio continente ad affrontare con umanità e visione politica, con solidarietà e capacità negoziale per fermare i conflitti, una crisi le cui conseguenze non sono facilmente prevedibili.

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