L’epoca della nazionalizzazione della religione: è sempre più questo uno dei tratti distintivi della stagione politica nella quale siamo immersi. Fede e ideologia, dio e ragion di stato, si mischiano e creano una miscela identitaria quasi perfetta per movimenti che non ammettono sfumature, differenze, libertà. La “riconquista” islamica di Santa Sofia da parte del leader turco Recep Tayyip Erdoğan rientra in questo quadro. Prima basilica, poi moschea, infine museo aperto a tutti, Santa Sofia rappresentava qualcosa di unico nel cuore di Istanbul: uno spazio sacro – protetto da una laicità che non negava la fede e anzi ne coglieva la ricchezza e la complessità – per cristiani e musulmani, e per chiunque credesse nel dialogo e nell’incontro tra oriente e occidente, tra islam e cristianesimo.
Forse Mustafa Kemal Atatürk nel 1934, quando stabilì che il tempio fosse trasformato in museo, non pensava alle possibili conseguenze di quella decisione, ma la storia non sempre segue percorsi lineari. Così, con il passare degli anni, quasi silenziosamente, Santa Sofia era diventata un modello di convivenza. Fino alla decisione di Erdoğan di ritrasformarla in moschea.
Uno studioso e osservatore attento di cose mediorientali come Riccardo Cristiano, ha scritto su Reset: “Nel caso di Santa Sofia si può dire che proprio la coesistenza tra l’enormità e la valenza dell’edificio e la coesistenza al suo interno, per quasi cent’anni, di indimenticabili mosaici bizantini e medaglioni islamici davano a tutti la percezione di un’eccezione”. E ha aggiunto: “La cattedrale e la sua cupola, accogliendo accanto a quei capolavori d’arte cristiana simboli religiosi degli ex conquistatori trasmettevano l’idea di un qualcosa di più di un museo, si potrebbe dire di un messaggio nuovo per tutto il Mediterraneo tormentato da guerra anche nel nome di Dio”. In definitiva “quel museo diceva che gli assolutismi dei credenti possono essere superati, lo spazio può essere preservato per consentire un cammino rispettoso tanto della storia e della sua verità quanto della complessità”.
Il progetto egemonico sul mondo musulmano e mediorientale del presidente turco è ben visibile: assumere la leadership politica e religiosa nella regione, approfittando di crisi e conflitti devastanti – dalla Siria alla Libia – secondo un canone non nuovo in assoluto, ma che sta contrassegnando molte delle derive autocratiche di questi anni.
Mossa politica
Donald Trump che imbraccia la bibbia, Mateo Salvini che usa rosari e crocefissi come amuleti, il cattolicesimo di stato del leader ungherese Viktor Orbán, il ferreo patto di reciproco sostegno fra Vladimir Putin e il capo della chiesa ortodossa russa, il patriarca Kirill, sono altrettanti esempi di una corrente ideologica dove non c’è quasi neanche più bisogno del clero per rappresentare la religione: il clero è ridotto a spalla, a sostenitore del vero officiante in giacca e cravatta, il leader nazionalista di turno.
“La religione islamica non incoraggia nessun tipo di conversione di edifici di culto altrui”, ha spiegato al Servizio informazione religiosa (Sir), l’agenzia di stampa della Cei, Cenap Aydin, turco di fede musulmana, che da diversi anni dirige a Roma l’istituto Tevere, centro dove si promuove il dialogo interreligioso. “Ci sono stati molti esempi in questo senso nella storia. Forse il più significativo è quello di Omar, il secondo califfo del profeta Maometto: quando entrò a Gerusalemme, fu invitato a pregare nella chiesa del santo sepolcro, il luogo più sacro dei cristiani ma lui rifiutò preferendo pregare in un altro luogo. Non vedo quindi un motivo religioso dietro la conversione di Santa Sofia in moschea basato sulle fonti della religione islamica”.
La mossa di Erdoğan, che in ogni caso andava incontro alle frange più estremiste dei nazionalisti turchi, non ha ricevuto però grande consenso nel mondo arabo, perfino in quello più vicino alla Turchia. “Il leader turco dice che la trasformazione in moschea di Santa Sofia era un vecchio sogno, allora perché ha aspettato tanto a realizzarlo?”, si chiede Riccardo Cristiano. “La verità è che, nonostante le apparenze, Erdoğan è in crisi e senza il sostegno delle frange più estreme dei nazionalisti rischia di perdere il potere; per questo si gioca quella carta, l’obiettivo è nazionalizzare anche dio”.
Il ruolo dell’Europa
Neanche la provocazione di invitare il papa alla prima preghiera islamica all’interno di Santa Sofia ha riscosso grande consenso. Francesco, da parte sua, si è detto “addolorato” per la sorte dell’antica basilica cristiana, scegliendo accuratamente le parole per non concedere nulla alla facile contrapposizione ideologica fra chiesa di Roma e Turchia, dalla quale sono scaturiti già diversi fatti drammatici. Come l’assassinio dieci anni fa a Iskenderun (Alessandretta) di monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Turchia, per mano di estremisti nazionalisti e islamici.
“In Turchia”, aveva affermato Padovese nella sua ultima omelia il 30 maggio 2010, “si impara ad accettare la diversità, ma è importante anche farsi accettare. A questo proposito, l’unica strada è quella della cordialità e dell’amicizia. Ho cercato il dialogo con le autorità e con il mondo musulmano e sono sempre più convinto che il dialogo, prima di essere un incontro e confronto di idee, deve essere un incontro tra uomini che hanno cuore oltreché mente. Se un dialogo non coinvolge il cuore non serve molto”.
Ancora prima a perdere la vita era stato don Andrea Santoro, sacerdote fidei donum (in missione), ucciso in chiesa a Trebisonda nel 2006. Era però un’altra stagione, quella in cui lo stesso Erdoğan cercava la strada per entrare in Europa, ma l’Unione europea non seppe o non volle perseguire quel tentativo fino in fondo, lasciando che il gigante turco scegliesse la strada dell’oriente e del nazionalismo. Non solo: l’Europa ha poi utilizzato la Turchia per frenare il flusso di migranti provenienti dal conflitto siriano, il che ha dato ancora più potere contrattuale – o di ricatto – a Erdoğan.
Il presidente turco, oltre a restringere gli spazi di democrazia nel suo paese, da tempo cerca di far leva su una sorta di nazionalismo islamico con ambizioni geopolitiche più ampie. “La messa in scena organizzata venerdì 24 luglio, con la prima grande preghiera islamica all’interno della celebre basilica di Santa Sofia a Istanbul, trasformata in moschea, non ha nulla di casuale”, si legge in un editoriale del quotidiano francese Le Monde. “Questa data corrisponde al 97° anniversario della firma del trattato di Losanna che ha tracciato le frontiere della Turchia attuale. Quella che Erdoğan sogna di ridisegnare”. La religione diventa così un collante ideologico e uno strumento di potere al servizio dei propri obiettivi e scopi.
Sul fronte opposto si collocava il documento sulla fratellanza umana sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al Azhar, l’egiziano Ahmed al Tayyeb. Nel testo si affermava che “il rapporto tra occidente e oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture”.
“L’occidente”, proseguiva il testo, “potrebbe trovare nella civiltà dell’oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale”. Per questo “è importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in oriente e in occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura”.
La mossa di Erdoğan a Santa Sofia ha dunque più piani di lettura. Di sicuro punta a smantellare il dialogo portato avanti da leader religiosi e da donne e uomini di buona volontà che prosegue fra conflitti, terrorismi e fondamentalismi. Nonostante tutto, e a dispetto di violenze e avversità.
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