Credo sarebbe utile che almeno noi insegnanti facessimo più attenzione all’uso delle parole. Da dieci anni siamo invitati, da una Raccomandazione del parlamento europeo fatta propria dal ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur), a lavorare nelle scuole alla costruzione di otto competenze chiave di cittadinanza. Le Indicazioni nazionali per il curricolo, che sono legge dello stato dal novembre 2012, titolano un paragrafo “per una nuova cittadinanza”. La parola cittadinanza nomina, secondo il dizionario, il “vincolo di appartenenza di un individuo a uno stato, che comporta un insieme di diritti e doveri”.

Ma quando entriamo in classe, molti di noi si trovano davanti bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a diciott’anni senza nemmeno avere la certezza di diventarlo, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non hanno la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese.

Sono oltre 800mila coloro che vivono questa condizione e noi li guardiamo negli occhi tutti i giorni. Non possiamo fare finta di niente e giocare con le parole. Non possiamo fare nostre le indicazioni ministeriali che ci chiamano in modo prescrittivo ad assolvere al compito di “porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva”, mentre altre leggi impediscono l’accesso a una piena cittadinanza. Cosa ci dice la nostra coscienza quando una legge dello stato entra in rotta di collisione con un’altra legge dello stato? Quale legge scegliamo di seguire e quale trasgredire?

Trasformare la disomogeneità in ricchezza
Il tema non è di poco conto, visto che c’è un ambito preciso del nostro lavoro che si chiama “educazione alla cittadinanza e costituzione” e che la costruzione di competenze di cittadinanza è argomento trasversale obbligatorio, che riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline. Ora, dato che non c’è corso di formazione nelle scuole che non affronti il tema delle competenze di cittadinanza che siamo chiamati a costruire, mi chiedo di quale cittadinanza stiamo parlando.

Parliamoci chiaro. Gran parte delle classi delle nostre scuole dell’infanzia, primarie e secondarie presentano forti elementi di disomogeneità, non solo per lingua o provenienza geografica. Il nodo culturale che ciascuno di noi insegnanti è chiamato ad affrontare riguarda allora quale atteggiamento avere di fronte al grande lavoro che questa condizione di partenza comporta. Se ne vediamo solo la fatica, che indubbiamente esiste, siamo spacciati. Se invece pensiamo che le ragazze e i ragazzi che popolano le nostre classi guardano il mondo da punti di vista diversi, questa straordinaria disomogeneità può trasformarsi in una risorsa preziosa per conoscere e capire meglio la realtà che ci circonda.

Non posso accettare di avere in classe ragazzi che non saranno mai cittadini

“L’immigrato sospetta la realtà”, scrisse anni fa Salman Rushdie, che aveva cognizione profonda della questione. Quel sospetto ha una doppia valenza. Può prendere la strada della diffidenza e arrivare fino alla paranoia del vedere nemici e complotti dappertutto, o può aprire a una visione critica delle cose e sospettare, per esempio, che dietro alle indubbie distanze di lingua, visioni del mondo, atteggiamenti e comportamenti, ci sia qualcosa di più profondo che ci accomuna. Per esempio quell’elementarmente umano di cui parlava l’antropologo Ernesto De Martino, che permette l’incontro, il dialogo e talvolta anche un conflitto tra diverse posizioni che può arricchirci tutti.

In fondo cosa fanno gli scienziati se non sospettare continuamente la realtà per cercarvi ciò che nasconde? Cosa fanno gli artisti, i matematici, i letterati? La fatica è grande, certo, ma forse un gruppo umano riunito insieme per apprendere e dunque confrontarsi con il non sapere, è nelle condizioni migliori per sospendere il giudizio e accogliere con serenità la propria ignoranza.

Io non so e non capisco di matematica come non so e non capisco perché tu ti comporti e pensi in modo diverso dal mio. Non so di storia e non so quali immagini produca la tua lingua materna, diversa dalla mia, nei tuoi pensieri e nei tuoi sogni. Se tutti – io che insegno per primo – abbiamo il coraggio di confrontarci con il nostro non sapere e con l’ignoto che ci circonda, senza fare finta di non vederlo, siamo potenzialmente nella condizione migliore per aprirci all’altro. Il suo punto di vista, che è diverso dal mio, gli permette di confrontarsi con un testo, un teorema, una musica o un paesaggio in modo diverso da me, aiutandomi a scoprire che la cultura è relazione, intreccio di relazioni, o non è.

Ma per realizzare tutto ciò, per tentare di trasformare le nostre classi in una comunità, seppur provvisoria, capace di ascolto reciproco, è necessario studio, impegno e persuasione da parte di noi insegnanti. È necessario provare curiosità per ciascuno dei nostri allievi, perché solo testimoniando la nostra sincera curiosità verso ogni differenza possiamo pretendere uguale apertura da parte dei più chiusi. E lavorare sodo per dare pari dignità a tutti.

La non cittadinanza mina alla base la costruzione educativa
Io non posso accettare di avere in classe ragazzi cittadini e ragazzi che cittadini non saranno mai. È per un motivo educativo e perfino didattico che mi ribello alla non cittadinanza, perché quella condizione mina alla base il mio mestiere. Piero Calamandrei, nel primo dopoguerra, sosteneva che la scuola è il luogo dove avviene il miracolo della trasformazione dei sudditi in cittadini. Oggi la scuola è chiamata a creare le condizioni culturali perché doveri e diritti di cittadinanza siano estesi a tutti gli abitanti del nostro territorio.

Questo il motivo per cui con Clotilde Pontecorvo, Eraldo Affinati, i responsabili di associazioni di insegnanti come il Movimento cooperazione educativa, il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti e i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, insieme a molte scuole per stranieri, abbiamo pensato di lanciare, come docenti, un appello di “insegnanti per la cittadinanza”, per sollecitare l’approvazione della legge sullo ius soli e lo ius culturae.

Vogliamo organizzare per il 3 ottobre, data che il parlamento italiano ha votato perché divenisse Giornata della memoria delle vittime delle migrazioni, una grande iniziativa nazionale perché nei luoghi educativi se ne discuta apertamente. Chiediamo agli insegnanti di indossare un nastrino tricolore, indicando così la nostra volontà a considerare tutti i nostri alunni cittadini italiani e, chi di noi se la sentirà, si asterrà per un giorno dal cibo per realizzare uno sciopero della fame simbolico corale, che inauguri un mese di mobilitazione.

Nella concretezza della nostra pratica quotidiana, lontano da ogni retorica e da ogni semplificazione, dobbiamo operare per dimostrare che incontrarci e imparare tra diversi, in classi disomogenee, ci migliora davvero tutti. Ma questo è un compito complesso e per questo è così difficile insegnare. La condizione per fare questa scommessa, infatti, è che ciascuno abbia pari dignità. Le classi delle nostre scuole sono oggi davvero un laboratorio del futuro. Per questo ci battiamo perché bambine e bambini, ragazze e ragazzi che frequentano le scuole del nostro paese divengano tutti cittadini italiani a pieno titolo, da ora.

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