La sfida di Greta Thunberg alla scuola e a tutti noi
Oggi Greta Thunberg incontra in piazza del Popolo a Roma le ragazze e i ragazzi che hanno aderito in Italia alle manifestazioni per il clima. Greta ha 16 anni ed è la prima ragazza che sia riuscita a porre la questione del riscaldamento globale in modo così nitido, cocciuto e disarmante da ottenere una risonanza tanto vasta nel mondo. È riuscita da sola a convocare una manifestazione mondiale, che il 15 marzo scorso ha raccolto studenti in centinaia di paesi. Nessuno era mai riuscito a provocare una mobilitazione così grande.
Manifestare è necessario e importante, più difficile è rispondere alle domande di Greta con coerenza. Partiamo dalle affermazioni sul senso dello studiare contenute nel suo libro La nostra casa è in fiamme:
Qualcuno dice che invece di scioperare dovrei andare a scuola. Qualcuno dice che dovrei studiare per diventare una climatologa, così potrò risolvere la ‘crisi climatica’. Ma la crisi climatica è già stata risolta. Conosciamo già tutti i dati e abbiamo tutte le soluzioni. L’unica cosa che ci resta da fare è svegliarci e cambiare. A cosa serve imparare nozioni nel sistema scolastico, quando i fatti elencati dalla scienza promossa da questo stesso sistema vengono ignorati dai nostri politici e dalla nostra società?
Se diamo il giusto peso a queste affermazioni, ci rendiamo conto che Greta sta mettendo in luce la maggiore incongruenza che mina alla base il senso dell’educare. Da quasi trent’anni sembra che non si possa ragionare di educazione in Europa senza parlare di competenze. L’ultimo documento in tal senso è la raccomandazione del consiglio d’Europa del maggio 2018 che ripropone, al centro dell’azione educativa, la costruzione di competenze di cittadinanza.
La parola competenza è assai ambigua e si presta a interpretazioni diametralmente opposte. Da un lato c’è la versione utilitaristica promossa dall’European round table, formato da un gruppo di industriali guidati dal proprietario della Volvo. “Per questo gruppo”, afferma il pedagogo francese Philippe Meirieu, “il concetto di competenza permette di misurare l’utilizzabilità delle persone da parte delle imprese indipendentemente dai tradizionali diplomi scolastici, ritenuti ormai obsoleti”.
Dall’altro lato, le Indicazioni nazionali per il curricolo del 2012 – cioè la legge che dovrebbe orientare la didattica nella nostra scuola di base – tracciano un profilo delle competenze assai più interessante, che va dalla consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti alla capacità di incontro con persone di diverse nazionalità, dalla capacità di procurarsi informazioni e impegnarsi in nuovi studi anche in modo autonomo, fino allo sviluppo di “competenze per l’esercizio di una partecipazione attiva alla vita sociale, orientate ai valori della convivenza civile e del bene comune”.
Il re è nudo
Ma ecco che arriva Greta Thunberg e, con la sua candida radicalità, ci rivela che il re è nudo e che forse siamo nudi anche noi adulti, che ci rifugiamo “nel gioco sociale che sembra appassionarvi tanto”, ignorando di stare sull’orlo del baratro.
Che senso ha, infatti, sostenere che la scuola debba costruire competenze, cioè permettere a ragazze e ragazzi di incontrare, elaborare e costruire saperi che valgano anche fuori, nella società e nella vita, quando le conoscenze essenziali, che hanno a che vedere con il mantenimento degli equilibri del nostro pianeta, sono ignorate e perfino derise dai potenti della Terra? Che senso ha accumulare conoscenze quando gli allarmi sostenuti da rigorose analisi scientifiche, illustrate fin nei dettagli da centinaia di scienziati e fatte proprie – almeno sul piano formale – da conferenze e riunioni internazionali, riescono solo in minima parte a orientare l’agenda politica e l’elaborazione di nuove leggi nei diversi paesi? Che senso ha studiare se non riusciamo a trasformare e riorientare le abitudini e i comportamenti distruttivi della maggioranza di noi abitanti della Terra?
Non si tratta di aggiungere qualche nuovo contenuto di studio, ma di mutare il paradigma e criticare alla radice il bugiardo ossimoro dello sviluppo sostenibile. Capire è cambiare – ci ricorda la ragazza svedese – altrimenti è pura finzione.
Vedere solo il bianco e il nero
“Voi dite che nella vita non c’è solo il bianco e il nero. Ma è una bugia. Una bugia molto pericolosa. O evitiamo l’aumento della temperatura di 1,5 gradi, oppure no. O evitiamo di innescare una reazione a catena irreversibile che sfuggirà a qualsiasi controllo umano, oppure no. O scegliamo di voler esistere ancora come civiltà, oppure no. E questo è bianco o nero”, scrive Greta.
E ancora:
Per quelli che, come me, ricadono nello spettro autistico, le cose sono sempre bianche o nere. (…) Se le emissioni devono essere fermate, dobbiamo fermarle. Per me questo è bianco o nero. Non ci sono zone grigie quando si parla di sopravvivenza.(…) Da molti punti di vista noi autistici siamo quelli normali, e quelli strani siete voi. (…) Il nostro sciopero della scuola non ha niente a che fare con la politica di un partito. Al clima e alla biosfera non importa niente della politica e delle nostre parole vuote, neanche per un secondo. A loro importa solo cosa facciamo nella pratica. Questo è un grido di aiuto.
Nel mito inventato da Platone 24 secoli fa, colui che esce dopo aver scoperto di essere stato incatenato e costretto a vedere solo ombre per tutta la vita, pensa che se tornerà nella caverna e racconterà ai suoi compagni com’è davvero il mondo, non gli crederanno e rischierà forse perfino di essere ucciso.
A Greta Thunberg sta accadendo un paradosso apparentemente contrario. È ricevuta e invitata a parlare al congresso internazionale sul clima in Polonia e dai potenti riuniti a a Davos, dal presidente dell’Unione europea e perfino dal papa, che nel 2015 ha diffuso una delle denunce più lucide sullo stato di salute del pianeta. Il problema è che molti di questi incontri, con tutta probabilità, produrranno ben pochi cambiamenti.
“Ai politici non chiederò niente. Piuttosto chiederò ai media di cominciare a trattare la crisi come una crisi. Piuttosto chiederò alle persone di tutto il mondo di rendersi conto che i nostri governanti ci hanno tradito. Perché ci troviamo di fronte a una minaccia esistenziale e non abbiamo tempo per continuare a percorrere questa strada folle”.
Un’isola di plastica indimenticabile
Nel libro La nostra casa è in fiamme Malena Ernman racconta che sua figlia Greta a dieci anni, quando vide a scuola un filmato sull’isola di plastica che galleggia nell’oceano Pacifico meridionale e che è più grande del Messico, si mise a piangere. Anche i suoi compagni rimasero molto colpiti, ma la questione è che gli altri poi dimenticarono rapidamente, mentre per lei quell’isola di spazzatura si era fissata nella mente. Lei ha visto quello che noi non vogliamo vedere. Greta fa parte di quella minoranza di persone che riesce a vedere l’anidride carbonica a occhio nudo. Vede i gas serra che escono dai nostri comignoli, che sono portati dal vento e che trasformano l’atmosfera in una gigantesca discarica invisibile.
A undici anni mi sono ammalata, sono caduta in depressione. Ho smesso di parlare. E ho smesso di mangiare. In seguito mi hanno diagnosticato la sindrome di Asperger, il disturbo ossessivo-compulsivo e il mutismo selettivo. In pratica significa che parlo solo quando mi sembra necessario. Per esempio, adesso.
Lo sguardo e la testimonianza di Greta pongono con forza una questione educativa di fondo, riguardo alla nostra relazione con la conoscenza. All’origine della nostra cultura, nelle prime scuole filosofiche dell’antica Grecia, chi insegnava e studiava non si limitava a elaborare e trasmettere conoscenze, ma cercava di sperimentarle su di sé. Prima che studio, la filosofia era esercizio, pratica. Ed è esattamente di questo che parla oggi Greta.
Non voglio che siate ottimisti. Voglio che proviate la paura che io provo ogni giorno. E poi voglio che agiate. Voglio che agiate come fareste in un’emergenza (…) come se la nostra casa fosse in fiamme. Perché lo è.
Trent’anni fa Alexander Langer propose il tema della conversione ecologica, evocando una trasformazione che doveva intrecciare alla necessaria riconversione economica una più profonda trasformazione della nostra relazione con la natura, il pianeta e l’ingiusta distribuzione delle ricchezze. Nel cercare di individuare un’etica all’altezza di una sfida ecologica che sentiva ineludibile, proponeva di applicare questa “regoletta” kantiana: ciascuno di noi dovrebbe limitare il suo consumo di risorse ed energia, adeguandolo alla possibilità che i sette miliardi di abitanti del pianeta possano consumare altrettanto.
Qualcosa di analogo si legge in La nostra casa è in fiamme: “Nessuno parla mai del principio di equità, chiaramente affermato in ogni punto dell’Accordo di Parigi, principio che è assolutamente indispensabile per far funzionare l’accordo a livello globale. Secondo questo principio, i paesi ricchi come il mio devono scendere a zero emissioni – nel giro di sei-dodici anni con la velocità di emissione attuale – in modo che i cittadini dei paesi più poveri possano innalzare il loro standard di vita costruendo una parte delle infrastrutture che noi abbiamo già costruito: strade, ospedali, reti elettriche, scuole e acquedotti”.
Come trasformare il nostro immaginario?
Al Gore, quando decise nel 2006 di produrre e interpretare il documentario Una scomoda verità, affermò che forse il cinema poteva indurre a maggiori trasformazioni rispetto all’azione di governo, perché agiva sul terreno dell’immaginario. L’affermazione fece riflettere, visto che proveniva da chi era stato vicepresidente degli Stati Uniti.
Lo scrittore indiano Amitav Ghosh, il cui paese già soffre delle conseguenze dei cambiamenti climatici, con milioni di contadini costretti ad abbandonare le loro terre a causa delle continue inondazioni nel delta del Gange, nel saggio La grande cecità si domanda come mai la letteratura non riesca a illuminare la questione con l’intensità che richiede. Con inquietudine scrive che “oggi, proprio quando si è capito che il surriscaldamento globale è in ogni senso un problema collettivo, l’umanità si trova alla mercé di una cultura dominante che ha estromesso l’idea di collettività dalla politica, dall’economia e anche dalla letteratura”.
Lo sciopero a oltranza di Greta Thunberg lo scorso agosto e i suoi venerdì di astensione dalle lezioni hanno colpito l’immaginazione di centinaia di migliaia di studenti in tutto il mondo.
La ragazza non sta fondando una nuova scuola filosofica ma chiede, nel modo ultimativo che sanno avere gli adolescenti, un cambiamento radicale nel modo in cui la società si relaziona con la conoscenza. Chiede di svegliarci e di agire di conseguenza.
Chi crede nella funzione dell’educazione non può non interrogarsi su tutto questo. Forse, nelle nostre scuole dovremmo immaginare di fare qualcos’altro ogni venerdì, provando a ragionare con radicalità e senza bugie su quali pratiche e comportamenti siano compatibili con il futuro di un pianeta abitabile per tutti.
È una strada difficile, che appare quasi impossibile percorrere, ma le domande che pone Greta Thunberg sono ineludibili, perché mai con tanta evidenza come in questo caso capire è cambiare. E non cambiare vuol dire non aver capito, alla faccia del gran parlare di competenze.
All’inizio degli anni sessanta, quando i sovietici lanciarono il primo uomo nello spazio, negli Stati Uniti lo shock culturale di aver perso quella sfida fu tale che in pochi anni rifondarono l’intero sistema di istruzione. Oggi, se concordiamo con Greta che “risolvere la crisi climatica è la sfida più grande e complessa che l’Homo sapiens abbia mai dovuto affrontare”, credo dovremmo impegnarci tutti per ripensare alla radice la scuola e la funzione dell’educazione nella società.
Nella mitologia, Chirone ha il busto d’uomo e il corpo di cavallo, ed è immortale come gli dèi. Incarna i confini di tre mondi e perciò è così saggio da poter essere maestro di Achille e di tanti eroi. Diventa medico capace di cure impossibili quando lo colpisce la freccia di Eracle. È nella sofferenza indicibile dell’essere ferito a morte e di non poter morire che gli si rivela la capacità straordinaria di guarire ciò che sembra impossibile curare.
Se Greta è diventata un’icona mondiale capace di commuovere e muovere tante ragazze e ragazzi, non credo sia solo per la sua giovane età, ma piuttosto per il suo sguardo serio, corrucciato e concentrato. Per la convinzione sofferente che l’ha portata a scioperare da sola per settimane. Per quella testimonianza sulle scale del parlamento svedese, con il suo semplice cartello sempre uguale. Per le parole dirette e affilate di cui è capace.
È il suo corpo che ci parla. Ed è dal corpo malato del pianeta e di tutti noi che dobbiamo provare a partire nel ripensare in modo radicale l’educazione, per comprendere davvero che capire è cambiare, per tornare a pensare di essere capaci di costruire un futuro in cui ci sia acqua potabile, spazio e vita degna per tutti.
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Internazionale 1296, 1 marzo 2019