Un ribelle dell’Esercito siriano libero ad Aleppo, il 18 giugno. (Muzaffar Salman, Reuters/Contrasto)
Neanche il G8 di Lough Erne è servito ad avvicinare la soluzione della crisi siriana. Nella dichiarazione finale non si fa cenno all’esclusione di Bashar al Assad da un ipotetico governo di transizione e la data fissata per la conferenza di Ginevra è sempre la stessa: “prima possibile”.
Del resto non c’era motivo di aspettarsi nulla di diverso: era improbabile che annunciando di essere pronto a fornire armi ai ribelli Barack Obama potesse spingere Vladimir Putin a un ignominioso voltafaccia sul suo sostegno ad Assad. In compenso la mossa di Obama ha spaventato Francia e Regno Unito, rivelando che la loro linea dura sulla fine dell’embargo Ue era soltanto un bluff e che l’impossibilità di controllare un altro focolaio di islamismo militante a due passi da casa spaventa loro per primi. Le opinioni pubbliche europee sono sempre più contrarie a ogni forma di intervento e l’ondata di entusiasmo suscitata dall’elezione di Hassan Rohani in Iran contribuisce a smontare il tentativo di Obama di riprendere la retorica da asse del male con lo screditato argomento delle armi di distruzione di massa.
Contrariamente alle interpretazioni di gran parte della stampa occidentale, che lo vorrebbe indebolito e costretto al compromesso con i suoi avversari interni, la Suprema guida iraniana Ali Khamenei ha compiuto un vero capolavoro politico. Memore della lezione del 2009, stavolta “ha lasciato che le passioni si sfogassero prima delle elezioni e non dopo”, come scrive Suzanne Maloney su Foreign Affairs, permettendo una campagna elettorale libera. Poi ha architettato la vittoria di Rohani lasciando in corsa cinque conservatori contro un solo “moderato”, su cui si sarebbero concentrati i voti di tutti i riformisti. Il risultato è un’enorme beneficio d’immagine per la democrazia iraniana e la completa pacificazione dell’opposizione interna.
Rohani non è un paria internazionale come Ahmadinejad e potrà sedersi ai tavoli diplomatici con piena dignità. Il rifiuto da parte dell’occidente di considerare le sue offerte di dialogo sarà difficilmente giustificabile. Con poche concessioni sul fronte interno e sul programma nucleare, Khamenei e l’establishment avranno a disposizione un enorme capitale da investire in politica estera, che in questo momento per loro conta più di qualunque altra cosa.
Curiosamente la Turchia sta facendo il percorso inverso: la sconsiderata gestione delle proteste di piazza Taksim sta gravemente danneggiando l’immagine del governo Erdoğan e la sua posizione nel conflitto siriano. Da campione della democrazia nella regione, agli occhi dell’Europa è diventato un islamista con pericolose tendenze autoritarie, contribuendo a diminuire le speranze che in Siria possano vincere i “buoni”.
Per i ribelli ottenere sostegno militare e diplomatico a ovest si fa sempre più difficile, mentre sul campo la sconfitta di Qusayr e l’imminente attacco ad Aleppo rischiano di metterli definitivamente sulla difensiva. I loro alleati sunniti della regione sono sempre più preoccupati: non possono più restare nell’ombra e devono prendere l’iniziativa. Questo spiega la rottura dei rapporti diplomatici con Damasco da parte dell’Egitto e l’annuncio che l’Arabia Saudita invierà ai ribelli missili antiaerei portatili. Proprio quelli che l’Europa teme tanto che possano finire nelle mani sbagliate.
Gabriele Crescente è l’editor italiano di Presseurop. Ogni tanto è su Twitter: @crescenteg
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