È stata la guerra più brutale mai intrapresa da Israele, e il 26 agosto si è conclusa esattamente dov’era cominciata. In mezzo, tra l’inizio e la fine, c’è un numero incalcolabile di ferite. Quelle dei palestinesi sanguinano di più, ma quelle degli israeliani sono più profonde. La guerra dei cinquanta giorni è finita senza vincitori, ma ieri notte a Gaza si festeggiava (in un certo senso a ragione).

Non c’è stata giustizia in questa guerra. Entrambi gli schieramenti hanno commesso crimini orribili. In ogni caso il primo insegnamento del conflitto non va dimenticato: il potere (militare) ha i suoi limiti. Le nostre bombe intelligenti e le nostre centinaia di aerei non ci hanno aiutato. Non hanno vinto la guerra e non avrebbero mai potuto vincerla. Come ha scritto l’analista palestinese Mouin Rabbani sulla sua pagina Facebook: “Quando un esercito arriva al punto di distruggere condominii in serie come se fosse un ingegnere comunale non può più essere definito un esercito credibile”.

Hamas è diventato sempre più forte nonostante i patetici tentativi di negarlo da parte dei propagandisti israeliani. Anche la Striscia di Gaza, per quanto decimata, è diventata più forte. Il suo destino, almeno per un breve periodo, preoccuperà Israele e il mondo. Se non fosse stato per i razzi, nessuno se ne sarebbe interessato.

Gaza ha pagato con il sangue, molto sangue. Anche Israele ha sanguinato (meno). Ma tra i danni subiti ci sono anche le ferite alla sua reputazione internazionale e quelle ancora più profonde alle sue deboli istituzioni democratiche, che impiegheranno molto tempo a guarire. Hamas è diventata un’organizzazione rappresentativa (persino per Israele) e un esempio di salda resistenza (almeno per il suo popolo).

Eppure il vero test di questa guerra deve ancora arrivare. Questo conflitto inutile potrebbe produrre dei risultati positivi se Israele riuscirà a trarne insegnamento. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che su questa guerra ha perso il sostegno della popolazione, merita un riconoscimento storico: diversamente dai suoi colleghi ha avuto almeno la capacità di capire quando mettere fine all’orrore. Lo ha fatto dimostrando una grande leadership. Forse in futuro imparerà che oltre al potere di fermare le guerre ha anche quello di voltare pagina.

Israele può vincere la guerra solo ascoltando le comprensibili richieste del suo nemico: aprire Gaza al mondo e avviare un dialogo sul futuro dei Territori occupati. Basta con gli accordi sotto banco che rapidamente scatenano una nuova operazione. Serve un nuovo atteggiamento verso Gaza, verso Hamas e verso l’intero popolo palestinese. Basta con le foto ufficiali con il presidente Abu Mazen. Serve un negoziato serio mirato a un costruire la pace con il governo di unità nazionale palestinese.

Difficile dire se Netanyahu vuole (e può) intraprendere questo cammino. In ogni caso, negli ultimi cinquanta giorni, il mondo arabo e quello occidentale gli hanno fatto capire che è l’unica strada, non ce ne sono altre. Negli ultimi cinquanta giorni Gaza gli ha fatto capire che Israele non può vivere per sempre con la spada in mano.

Negli ultimi cinquanta giorni i cimiteri si sono riempiti di corpi e gli ospedali di feriti. Le macerie si sono accumulate. L’odio e la paura hanno rotto gli argini. Eppure tutto questo potrebbe avere un risvolto positivo: forse Israele, per la prima volta nella sua storia, è pronto a cambiare atteggiamento.

Sembra ridicolo, adesso. Ma in fondo non si poteva fermare questa guerra maledetta senza un minimo di speranza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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