Mentre sul prato della Casa Bianca si assisteva a strette di mano in pompa magna, intorno a me fischiavano i proiettili. Mentre il 13 settembre 1993 il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin dava la mano al leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat, io indossavo un casco e un giubbotto antiproiettile.
Non è una metafora. Verso la metà di settembre di quell’anno ero a Sarajevo, una città martoriata e sotto assedio. Quando a Washington sembrava facessero la pace, io stavo vivendo il culmine di una guerra. Arrivai alla pace solo più tardi.
Due giorni prima di partire per la Bosnia, avevo scritto su Haaretz: “Quando il primo ministro Yitzhak Rabin ha firmato una lettera in cui riconosceva l’Olp, il mondo non è crollato, ma non c’è neanche stata gente che si è tuffata nelle fontane per la gioia. L’evento, che è stato importante almeno quanto la visita del presidente egiziano nel 1977, non sembra entusiasmare gli israeliani. La destra ultraortodossa è infuriata, la sinistra è incredula e la maggior parte degli israeliani si preoccupa più di come questo progresso diplomatico influirà sulla borsa che di cosa succederà alla kasbah di Nablus”.
L’addio a Gaza
All’inizio di novembre dello stesso anno incontrai Raafat Abed, un comandante dei Falchi di Al Fatah, un gruppo armato fedele ad Arafat, responsabile dei campi profughi nella parte centrale della Striscia di Gaza. Abed viveva in clandestinità nel campo di Nuseirat. Anche se erano stati firmati gli accordi di Oslo, continuava a essere in cima alla lista dei ricercati di Israele. Scappava dai servizi segreti dello Shin bet e dall’esercito israeliano, e dormiva ogni notte in un letto diverso.
“Per ora abbiamo sospeso la lotta armata”, mi disse. “Obbediamo agli ordini”.
Mi ricordo quando lasciai la Striscia di Gaza dal checkpoint di Erez agitando platealmente la mano. Arrivederci Gaza, arrivederci e addio. Non torneremo più, sicuramente non per parlare dell’occupazione. L’occupazione è finita, così pensavamo. Ne vedevamo già l’epilogo all’orizzonte.
Ricordo le gioiose conferenze di pace della fine degli anni novanta, da Valencia in Spagna a Rodi in Grecia, e l’indimenticabile viaggio in Europa con una delegazione di parlamentari, metà della knesset israeliana, metà del consiglio legislativo del futuro stato palestinese.
Il palestinese Marwan Barghuti e gli israeliani Yehuda Harel (dalle alture del Golan), [David Tal](https://en.wikipedia.org/wiki/David_Tal_(politician) (che faceva ancora parte dell’ultraortodosso Shas), il pacifista [Dedi Zucker](https://en.wikipedia.org/wiki/David_Zucker_(politician) e Haim Ramon posarono insieme per una foto, piena di grandi speranze, che ancora tengo sulla scrivania.
Prospettiva ingannevole
Allora c’era speranza, ma presto la abbandonammo, e non è più tornata. Quella fu l’ultima volta che si parlò di pace in Israele. Con il senno di poi, abbiamo capito che era una prospettiva ingannevole. Io credevo negli accordi di Oslo. Pensavo che Israele volesse sinceramente aprire un nuovo capitolo con il popolo palestinese. Molti la pensavano come me. Ma non avevamo fatto attenzione ai dettagli, non avevamo osservato il quadro d’insieme. Odiavo lo scetticismo di chi voleva rovinarci la festa con previsioni cupe. Davvero volevo credere in Oslo.
Rispetto a quello che era successo negli anni precedenti, quando il pacifista Abie Nathan era finito in prigione solo per aver incontrato i rappresentanti dell’Olp, la stretta di mano tra Rabin e Arafat era semplicemente un sogno. Credevo anche nelle motivazioni dei mediatori israeliani, ero convinto che realmente e onestamente volessero mettere fine all’occupazione quando sarebbe stato ancora possibile.
Nessuno l’aveva preparata intenzionalmente, ma era pur sempre una trappola
Solo molti anni dopo ho capito che era una trappola. Forse nessuno l’aveva preparata intenzionalmente, ma era pur sempre una trappola. Anche Arafat e gran parte dei palestinesi ci erano cascati. Come se Rabin non fosse rabbrividito nello stringere la mano di Arafat… Anche allora mi rendevo conto che non è così che si fa la pace.
C’era più sangue palestinese sulle mani di Rabin che sangue ebreo sulle mani di Arafat. Se c’era qualcuno che avrebbe potuto storcere il naso alla cerimonia di Washington era proprio il palestinese. Arafat stava stringendo la mano all’uomo che nel 1948 aveva conquistato le città palestinesi di Lod e Ramla, con tutto quello che poi successe in quei posti. L’uomo che successivamente avrebbe usato il pugno di ferro nella prima intifada. Arafat stava stringendo la mano a colui che aveva espulso il suo popolo e l’aveva costretto a vivere sotto occupazione. Eppure, il tormento di Rabin sembrava genuino e lo si può anche perdonare per non essersi saputo trattenere.
Le reali intenzioni di Israele
Quello che non si può perdonare è che gli accordi non tenessero conto di un gran numero di aspetti. Il peccato originale del processo di Oslo è che non si è andati fino in fondo, in particolare sulla presenza degli insediamenti israeliani, che all’epoca erano molto più piccoli rispetto a oggi. Il fatto che non sia stato discusso il futuro e lo status delle colonie, e che non si sia deciso di fermarne la costruzione è la prova delle reali intenzioni degli israeliani.
Gli insediamenti hanno affossato ogni tentativo di pace sul modello di Oslo. Ignorare la questione fu un errore determinante. Il fatto che i palestinesi l’abbiano accettato è la prova che anche loro caddero nella trappola.
Oggi perfino chi costruisce un semplice balcone in Cisgiordania sa che nessuno glielo distruggerà mai. Chi non ha accettato di fermare gli insediamenti nei territori occupati stava essenzialmente dicendo: “Non abbiamo intenzione di andarcene”. Ma ci sono voluti anni per capirlo.
Gli accordi di Oslo hanno perpetuato l’occupazione. Hanno concesso a Israele almeno altri venticinque anni di colonizzazione incontrollata e di brutale occupazione. Forse anche altri cinquanta, o cento. Forse l’eternità dell’apartheid.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.
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