(KUTAustin, Flickr)
Dave Grohl è, piaccia o no, una rockstar globale. Eppure non ha perso quello spirito un po’ carbonaro da ribelle punk coltivato ai suoi esordi, quando era il batterista dei Mission Impossible e dei Dain Bramage.
Il suo keynote speech di stamattina al centro congressi di Austin, una specie di simbolico discorso inaugurale del South by southwest musicale, è stata un’occasione per confessare tutto il suo amore per la musica. Dall’infanzia nella sua cameretta ai Nirvana, dalla morte di Kurt Cobain alla resurrezione artistica con i Foo Fighters. Fino all’esordio da regista con il documentario Sound city.
Il mantra di Grohl, che indossava un paio di occhiali “da professore”, è stato uno e uno solo: “The musician comes first”. Detto in poche parole: conta solo la musica e chi la fa, più che tutto quello che ci sta intorno e che spesso non serve a nulla.
Neanche troppo velati gli attacchi dell’artista al pop più commerciale e ai talent show come The Voice (“Ve lo immaginate Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind di fronte alla giudice Christina Aguilera?”).
Il musicista statunitense non ha risparmiato anche qualche frecciatina alle élite intellettuali della musica (“Gangnam style è una delle mie canzoni preferite del decennio. È forse meglio dell’ultimo album degli Atoms For Peace di Thom Yorke? Bisognerebbe controllare su Pitchfork. O forse no, non me ne frega un cazzo”).
Il keynote speech del leader dei Foo Fighter ha insomma voluto appellarsi ai valori antichi della musica rock. I vinili dei Beatles, il punk statunitense degli anni ottanta, il rock degli Stones e di Bowie. Non casuale il riferimento iniziale a Bruce Springsteen, che l’anno scorso era su questo palco al suo posto. Da qui l’invito agli artisti a “cercare la propria voce”, a “essere sempre se stessi”.
Un discorso intenso, accorato ma forse un po’ troppo “vecchia maniera”. Va bene omaggiare i mostri sacri del rock e l’integrità artistica dei “padri” Neil Young e Bruce Springsteen. Ma anche da siti come Pitchfork e da certo “snobismo intellettuale” alla Thom Yorke, soprattutto in questi ultimi anni, sono venute fuori cose buone. Spesso ottime.
(Npr music)
Ieri, il 13 marzo, Nick Cave ha tenuto uno showcase allo Stubb’s. I fortunati che potevano assistere al concerto sono stati sorteggiati con una lotteria online. Io non ero tra quelli, ma ho recuperato il terreno perduto facendomi due ore di coda sotto il sole.
Il premio è stato ampiamente superiore al mio sforzo. L’artista australiano dal vivo non delude mai. Con poco più di un’ora a disposizione, Nick e i suoi Bad Seeds hanno scelto una scaletta che ha accontentato tutti: solo quattro brani dell’ultimo album e tanti classici.
Ad aprire le danze ci ha pensato l’evocativa Higgs Boson blues, a chiudere invece Push the sky away. In mezzo alcuni dei cavalli di battaglia del nostro, come From here to eternity, The mercy seat e una versione indiavolata di Stagger Lee.
Cave è il solito gigante: sfida il pubblico, lo provoca. Quasi lo irride. Però è impossibile staccargli gli occhi di dosso, finché resta sul palco.
Tra le cose che ho sentito, segnalo anche Jake Bugg. Il giovane folk singer inglese sembra uno dei fratelli Gallagher. Ma canta come uno che ha studiato a memoria Dylan e Paul Simon. E ha solo 19 anni.
Anche Il Pan Del Diavolo ha fatto il suo esordio al South by southwest: il duo siciliano si è esibito al Bd Riley’s, un pub sulla sesta strada. Un set di mezzora, nella formazione “classica” dei tempi di Sono all’osso: due chitarre acustiche, grancassa e tanto sudore.
Nonostante la barriera linguistica, il messaggio è passato. Il pubblico del pub è sembrato divertirsi parecchio ad ascoltare pezzi come Scimmia urlatore, Pertanto, La velocità.
Oggi tocca, tra gli altri, a Jovanotti, Alt-J e Flaming Lips. Bisogna ripartire in fretta, e prepararsi alle solite code sotto il sole. Ma si fanno volentieri, vista l’offerta del South by southwest.
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