Un ragazzino. Ecco chi si nasconde dietro la barba e le prime di rughe di Lorenzo Costantino Cherubini, in arte Jovanotti. Nonostante gli anni di carriera alle spalle, e il grande successo, la cosa che colpisce incontrandolo di persona è la sua sincera vitalità. Quando parla, ti guarda dritto negli occhi. E sorride, spesso. Come un ragazzino.
Lorenzo ha appena finito il suo concerto Mellow Johnny’s bike shop, il terzo della sua avventura al South by southwest di Austin. Insieme alla sua band ha suonato in un piccolo locale, di fronte a poche persone. Questo è il suo nuovo corso: fare la gavetta negli Stati Uniti. Il paese dove vive da un anno, da quando ha lasciato (temporaneamente) l’Italia.
Oggi il pubblico si è divertito. Come stanno andando i concerti al South by southwest?
“Molto bene. Per me è un periodo di orientamento, di sperimentazione, nel quale vado solo in giro a suonare. Una buona palestra in vista del mio tour estivo negli stadi. Mi hanno proposto altri progetti qui negli Stati Uniti, quindi l’anno prossimo farò un po’ avanti e indietro. E voglio prendermi un po’ di tempo libero per cominciare a scrivere cose nuove”.
Qual è il stato il tuo impatto con gli Stati Uniti in questi mesi?
“Il modo migliore per capire un paese è lavorarci. Il turismo è un’invenzione recente, in passato si è sempre viaggiato soprattutto per motivazioni poco romantiche: fare la guerra o fare affari. È stato Tiziano Terzani a mettermi la pulce degli Stati Uniti nell’orecchio. L’ultima volta che l’ho visto a casa sua a Firenze, mi ha detto: ‘Se io fossi giovane andrei lì, perché è l’ultimo paese rimasto in grado di creare una mitologia’. Io non sono giovane, ma mi sento giovane. E sono d’accordo con Tiziano. Questo è un paese che genera idee, che è libero dagli stereotipi, dove le cose accadono oggi. Nonostante siano passati tutti questi anni, è ancora il nuovo mondo”.
Come vedi l’Italia da qui?
“Io amo l’Italia, è la mia mamma e voglio vivere dentro la sua pancia per sempre. Ma nel nostro paese si ha sempre la sensazione di aggiornare un hardware che resta fermo. Nel continente americano, e intendo anche in America Latina, c’è spazio, anche geografico, per esprimersi. È un paese vuoto, che ti piacerebbe riempire con le tue idee, a differenza del nostro”.
Hai fatto fatica a portare negli Stati Uniti la tua musica?
“Io sono un entusiasta di natura. Ma sento anche grande frustrazione, in un certo senso. Per un cantante italiano è dura qui, c’è un’impossibilità quasi scientifica di comunicare alcune cose. In quanto impero, gli Stati Uniti sono poco incuriositi dal resto del mondo. Per loro la musica italiana è qualcosa di esotico, a meno che non fai l’opera, che però è considerata un po’ come la musica classica. Comunque le cose succedono, pian piano. Dopo un po’ di concerti stanno cominciando a invitarci anche ai festival più importanti”.
Il suono che avete proposto al South by southwest sembra molto funk.
“È un suono molto ‘free’, perché di fatto non facciamo mai le prove e andiamo d’istinto. È funk perché è la forma a me più adattabile. Facciamo questa cosa qui perché è semplice: batteria basso e chitarra”.
Cosa ne pensano gli americani del tuo stile?
“Stando qui sono costretto a dare un nome alla mia musica, una cosa che mi mette a disagio. E quando qualcuno lo fa al mio posto mi imbarazzo sempre. Sull’Austin Chronicle hanno definito il mio stile ‘Un misto di chitarre wah wah e Stax Records’. Io amo le cose della Stax, ma non era la mia intenzione ottenere questo suono. Però so che finché non darò un nome alla mia musica, per me le porte non si apriranno mai. Gli Stati Uniti hanno bisogno di definire chi sei per farti fare strada. Qui la forma di pensiero unica è quella del mercato. Se una cosa vuoi metterla su uno scaffale ha bisogno di un’etichetta, sennò non la vendi”.
Qual è la tua impressione sul South by southwest?
“È una delle cose più belle che abbia mai visto. Me ne avevano parlato, ma non pensavo che ci fosse questa atmosfera. È difficile da raccontare, perché qui la somma vale molto di più delle singole parti. Se ti dico che ci sono 2.500 concerti in un giorno non ti dico niente. È come spiegare la processione del Venerdì santo, non ci riesci. È materiale per l’antropologia moderna, la nostra contemporaneità si esprime in questi giorni”.
Cosa ne pensi del keynote speech di Dave Grohl? L’hai sentito?
“Sì, c’ero. È stato interessante. Sono d’accordo con lui, in parte, sulla critica alle élite musicali. Ma non sarei così drastico: mi va bene Gangnam style, e anche Pitchfork e i talent show. Non rifiuto l’abbondanza. Accettiamo il caos, ma dentro il caos dobbiamo decidere come orientarci e unire i puntini, come diceva Steve Jobs. Noi sappiamo sempre dov’è il bene e dov’è il male, si tratta solo di imparare a orientarci”.
Quanto serve internet a un musicista oggi? Il tuo milione e mezzo di fan su Twitter dimostra che qualcosa conta.
“Senza le canzoni, i motori di ricerca non servono a nulla. La canzone ti porta in giro per il mondo. In Gangnam style non c’è un sistema alle spalle, c’è solo un pezzo divertente. Ha ragione Dave Grohl: prima di tutto la musica. Lui però è troppo nostalgico secondo me, parlava da anziano. Anche io sono anziano, perché ho la sua stessa età, ma il modo in cui la tecnologia sta cambiando la musica mi esalta. Continuiamo ad aggiungere novità al nostro mondo. Quando capiremo che lo spazio sarà finito, vedremo cosa fare”.
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