Damon Albarn durante un concerto a Londra, il 12 agosto 2012. (Ki Price, Reuters/Contrasto)
I Blur tornano in Italia. La band inglese sarà in tour nel nostro paese con due date: il 28 luglio al festival City sound di Milano, all’Ippodromo del Galoppo, e il 29 luglio al Rock in Roma, all’Ippodromo delle Capannelle. L’ultima esibizione del gruppo nel nostro paese risale al 2003, dieci anni fa.
I Blur nella loro carriera hanno pubblicato sette album, e tante belle canzoni. Facciamo un ripasso in vista dei concerti italiani. Il gioco è semplice: una canzone per disco.
Damon Albarn ha definito Leisure, l’esordio dei Blur datato 1991, un disco “orrendo”. Educatamente, dissento. Pezzi come Sing, There’s no other way e soprattutto She’s so high, anche a distanza di anni, restano dei classici. Canzoni che si muovono tra le macerie della madchester, lo shoegaze e i primi veri sussulti del britpop.
Con Modern life is rubbish siamo già nel cuore del britpop. Nostalgia e Englishness senza limiti. Il singolone For tomorrow è il manifesto di questi anni, e l’antipasto del grande successo commerciale dei Blur.
Parklife (1994) è il capolavoro dei Blur, non ci sono dubbi. E scegliere un solo brano è davvero difficile. Non si può non citare Girls & boys, la canzone che Thom Yorke avrebbe voluto scrivere, o la malinconica This is a low. Ma alla fine come si fa a non scegliere Parklife? L’accento cockney di Philip Daniels, il Jimmy Cooper di Quadrophenia, è difficile da dimenticare.
The great escape viene pubblicato solo un anno dopo, e coincide con un periodo difficile per Albarn e soci. Uscito nel pieno della guerra commerciale (persa, ma pazienza) con i fratelli Gallagher, vede la band sospesa tra la sbornia del successo di Parklife, gli eccessi della vita da rockstar e i vari problemi con alcol e droga. Anche questo album è stato rinnegato da Damon Albarn, spesso critico verso le sue creazioni.
I Blur, in fondo, non sono mai stati a proprio agio sul carrozzone del britpop. E la loro carriera, soprattutto quella del loro leader, l’ha dimostrato. Rispetto all’album precedente, la qualità è inferiore. Ma non è tutto da buttare. The universal, per esempio, è diventata un classico nel repertorio del gruppo.
Blur, il disco senza titolo, esce nel 1997 e un po’ a sorpresa si scrolla il britpop di dosso. Lo butta nel fango, cancellandolo con un suono sporco, contaminato da hip hop ed elettronica. La chitarra di Coxon fa meraviglie, tirando fuori riff e feedback memorabili quasi in ogni pezzo. Questo è il disco di Song 2, diventata uno degli inni degli anni novanta. Anche qui scegliere è difficile. Mi butto su On your own.
Con 13 la band è andata ancora oltre, facendo a pezzi la forma canzone (a parte negli ottimi singoli Tender e Coffee & tv). Questo disco in realtà ha raccolto un po’ di stroncature. Ma va rivalutato. Volete una prova? Sentite Caramel, un concentrato di struggente psichedelia lungo sette minuti e 39 secondi.
Think tank è un album dei Blur per modo di dire. Graham Coxon aveva lasciato da poco il gruppo, e tutto è finito nelle mani di Albarn. Che ci ha messo dentro tutta la sua tipica inquietudine musicale, mescolando generi e influenze in modo quasi caotico. Tra alti e bassi, anche Think tank, resta comunque un disco notevole. Ecco il singolo Out of time, sospeso tra pop e suggestioni sahariane.
Chiudiamo con Under the westway, una canzone scritta per il concerto di Hyde Park nel 2012. È il primo brano pubblicato dopo la reunion del 2009, e prova che, nonostante tutto, i Blur non sono invecchiati male.
Giovanni Ansaldo lavora a Internazionale. Si occupa di tecnologia, musica, social media. Su Twitter: @giovakarma
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