Il silenzio. È quello che colpisce durante il concerto dei Radiohead al Primavera sound. Siamo a un festival e il pubblico nelle prime file non solo sta zitto, fa anche “shh” a quelli che parlano. I motivi potrebbero essere diversi: i volumi un po’ troppo bassi, un peccato per un contesto del genere, la voglia di ascoltare per bene un concerto dopo essere stati per ore sotto il sole, oppure il rispetto, quasi un timore reverenziale, che la band di Thom Yorke ha conquistato tra gli appassionati di musica in questi anni. Da romantico, scelgo la terza opzione.
Silenzi a parte, è innegabile che il terzo giorno del Primavera sound sia stato monopolizzato, nel bene o nel male, dalla band di Oxford. Chi li ha visti, da lontano o da vicino, ne ha parlato con gli amici per le ore successive. Chi non li ha ascoltati, si è potuto gustare le ottime alternative (Dinosaur Jr. e Tortoise su tutti) con più calma e tranquillità.
Il primo effetto tangibile della partecipazione dei Radiohead al festival di Barcellona è stato un forte aumento del pubblico (è un’impressione, aspettiamo i dati finali ma mi risulta che siano andati esauriti due giorni su tre).
Risultato? Alle cinque diverse persone erano già in fila fuori dall’area che ospita i due palchi principali e all’apertura hanno fatto la classica corsa per conquistarsi i posti migliori nell’area del cosiddetto pit, una zona di fronte al palco che era divisa in due: a sinistra i possessori dei biglietti vip, quelli che costano di più, e a destra per tutti gli altri. Per fortuna qualche nuvola passeggera ha attenuato il sole, rendendo un po’ meno faticosa l’attesa per chi, come me, era sotto il palco dalle sei del pomeriggio.
Quasi come fossero un gruppo spalla, alle otto sono salite sul palco le Savages, band femminile di Londra guidata dalla cantante francese Jehnny Beth. Sono brave, hanno l’attitudine e la frontwoman giusta. Hanno fatto cinquanta minuti tirati e rumorosi. Però manca qualcosa. Probabilmente quelle due o tre canzoni in grado di svettare in mezzo alle altre.
Alle dieci e un quarto è toccato ai Radiohead. A introdurre l’entrata in scena di Thom Yorke e compagni ci sono le parole di Nina Simone, estratte da un documentario del 1970 sulla cantante statunitense. Avvolti da una luce rosso sangue, i Radiohead aprono il concerto con il singolo Burn the witch, suonato in una versione più elettrica rispetto a quella in studio. I primi cinque pezzi seguono la tracklist dell’ultimo album, A moon shaped pool: così ecco Daydreaming, ballata eseguita in un’atmosfera sospesa e quasi sussurrata da Yorke, Decks dark, Desert island disk e Ful stop.
Poi, all’improvviso, comincia un vero e proprio greatest hits che non si fermerà più fino alla fine del concerto. Si parte con The national anthem, pezzo abrasivo tratto dal capolavoro Kid A. Si passa per Talk show host, canzone tratta dalla colonna sonora di Romeo+Giulietta e riarrangiata in modo brillante grazie al gran lavoro fatto dalla sezione ritmica di Phil Selway e Colin Greenwood, aiutati per l’occasione da un secondo batterista, Clive Deamer e si arriva a Karma police, accolta da un boato ma suonata con qualche sbavatura.
I pezzi di In rainbows, un disco mai abbastanza celebrato, funzionano ottimamente: Arpeggi è tra i vertici del concerto.
Tra le ballate più intense e inaspettate spicca Street spirit, che si conferma semplicemente come una grande canzone. Paranoid android non perde il suo fascino con il passare degli anni. Tra i classici viene incastrata The numbers, altro pezzo tratto da A moon shaped pool, che fa la sua figura e sembra migliore rispetto alla versione del disco.
È Yorke, come sempre, a prendersi la ribalta, a interagire a suo modo con il pubblico, mentre si aggiusta i capelli sempre più lunghi. Jonny Greenwood sta nell’ombra. Cambia strumento quasi a ogni canzone, suonando chitarra, piano e sintetizzatori. Ma è lui la vera anima della band, in grado di tenere insieme rock, elettronica e musica contemporanea.
A chiudere lo show ci pensano due canzoni estratte dal disco Hail to the thief: 2+2=5 e There there. Salutati dagli applausi, i Radiohead tornano sul palco e ci mettono su un piatto d’argento l’argomento di conversazione per il post concerto: Creep.
I Radiohead, notoriamente, hanno un rapporto controverso con Creep. È stata la loro fortuna, il brano che li ha fatti diventare famosi negli anni novanta, ma anche la loro maledizione, perché il suo successo ha rischiato di confinare il gruppo nel recinto del rock adolescenziale. Hanno sofferto così tanto per questo motivo che hanno scritto una canzone contro Creep, intitolata My iron lung.
Per questo la band la suona raramente dal vivo. Le volte che è successo, negli ultimi anni, si contano sulle dita di una mano. Inutile dire però che Creep, con quel ritornello introdotto dalla fucilata della chitarra di Greenwood, non poteva che essere un trionfo. Poi i Radiohead se ne sono andati, lasciandoci con un dubbio: l’hanno suonata per noi o per loro stessi?
Qui, se interessa, c’è la scaletta completa del concerto.
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