Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera.
Alessandro Leogrande, La frontiera
Un arpeggio, una città lontana e fredda, gli occhi e la bocca consumati dal mare aperto. Ira, il terzo album di Iosonouncane, comincia così, sulle note del brano Hiver, una ballata cupa ed elegante che fa partire il viaggio del “disco corale di un uomo che rinuncia in parte alla propria voce per abbracciare quella di una moltitudine che attraversa terre e mari”, come lo definisce lo stesso musicista di Buggerru, in Sardegna. È un racconto polifonico di frontiere attraversate, di montagne, deserti, prigioni, fiumi e soldati, dove i confini tra i generi musicali e le lingue si confondono.
Ira, in uscita il 14 maggio, arriva a sei anni di distanza dal capolavoro Die ed è uno degli album italiani più attesi del 2021. Dura in tutto un’ora e cinquanta. Doveva uscire nel 2020 ed essere presentato in anteprima con una serie di concerti a teatro, ma il tour e la pubblicazione dell’album sono stati rinviati a causa della pandemia. La prima cosa che colpisce ascoltandolo è che non è cantato in italiano, ma in una lingua mista che comprende anche inglese, arabo, francese, spagnolo e tedesco. Iosonouncane ha scelto quella che definisce “una lingua dell’errore, della distanza percorsa e ancora da percorrere, una lingua del fraintendimento, della mancata comunicazione”. Questo idioma dà voce ai protagonisti del disco, ma la sua natura ibrida rende i primi ascolti faticosi, disorientanti.
“L’idea alla base di questa scelta è nata dal profondo senso di distanza e solitudine che le melodie e il suono delle prime bozze mi suggerivano”, risponde Iosonouncane via email, ma per il momento si rifiuta di spiegare meglio la storia raccontata dall’album. Cos’è quindi Ira? Una riflessione sulle migrazioni, un inno alla diversità e alla complessità del mondo? Forse sì, o perlomeno queste sono le prime suggestioni che comunica, ma sarebbe riduttivo identificarlo solo con queste categorie, e quindi è meglio lasciarsi guidare dal suo flusso.
Suoni nordafricani
Dal punto di vista musicale, Ira evidenzia ancora una volta la qualità di Iosonouncane come autore e arrangiatore, in grado di stare in bilico tra rock, prog ed elettronica, ma dimostra una discreta continuità con Die. Come ha spiegato Iosonouncane, il disco è stato concepito seguendo alcuni punti fermi: un gruppo preciso di musicisti per il quale scrivere e sul quale modellare strutture, arrangiamenti, timbri, dinamiche, trame vocali. Ira è una partitura interamente eseguibile dal vivo dalle persone che hanno suonato nel disco: Mariagiulia Degli Amori, Serena Locci, Simona Norato, Simone Cavina, Francesco Bolognini e Amedeo Perri.
Dopo tutti questi anni si poteva pensare a una svolta, a un nuovo suono, e invece a tratti siamo in territori abbastanza familiari. Se il disco del 2015, pur nella sua malinconia di fondo, era solare a abbagliante, Ira è il suo gemello più cupo e rarefatto. Lo si capisce dai suoni metallici di Ashes (ceneri, in inglese), il secondo brano in scaletta, che comincia con un cantato alla Thom Yorke (il cantante dei Radiohead è un’influenza costante, soprattutto il suo modo di usare la voce come uno strumento tra gli strumenti) e poi si apre su una sezione ritmica granitica, tra stoner e krautrock. Dal terzo brano, Foule (folla, in francese), emerge la novità più interessante dal punto di vista sonoro: l’influenza della musica nordafricana, presente anche in altri pezzi del disco come la splendida Hajar (pietra, in arabo), imperiosa come un canto di guerra berbero.
“Negli ultimi cinque anni ho ascoltato principalmente jazz, Duke Ellington e John Coltrane su tutti, e musica del Maghreb, con particolare attenzione al Marocco”, conferma Iosonouncane, che in questo album ama giocare come non mai sui ritmi ipnotici e ripetitivi, flirtando con la drone music come in Ojos (occhi, in spagnolo). Ma ci sono anche momenti di grande apertura melodica, come nella ballata al piano Nuit (notte in francese), con quel bellissimo cambio nella parte centrale che fa pensare ai momenti migliori di Die. Poi ci pensa Prison, con il suo incedere quasi folk metal che apre la strada a una nuova fuga elettronica, a riportare il disco su un binario bellicoso.
Orientarsi tra i testi, come detto, non è semplice. Ma ci sono alcune parole che ricorrono, come per esempio mother, madre. Anche in questo caso, Iosonouncane preferisce non spiegare il motivo e lasciare spazio all’interpretazione di chi ascolta: “Canto spesso la parola mother anzitutto perché ho bisogno di cantarla: così come già fatto per Die, ho lavorato su questa spinta istintiva per sviluppare il disco in ogni sua parte”.
Ira, come conferma il musicista, sarà suonato integralmente dal vivo nel 2022 nel tour teatrale che è stato rinviato, ma sarà presentato anche quest’estate in una serie di date che toccheranno alcuni festival italiani. “Farò un tour estivo con una formazione differente da quella che ha realizzato Ira e che lo suonerà integralmente nel tour teatrale dell’anno prossimo”, dichiara.
L’ultimo ritorno
Dopo la partenza di Hiver, dopo aver attraversato mari, terre e frontiere, Ira si chiude in modo circolare con un ritorno, quello descritto Cri (grido, in francese): “Hoy every son da el jabal comes ala rivage por mon last retour”, che potremmo provare a tradurre con “oggi ogni figlio viene dalla montagna alla riva per il mio ultimo ritorno”. Il viaggio oltre la frontiera finisce, con una lunga coda strumentale che fa pensare a un sole che tramonta.
Arrivati alla soglia delle due ore, dopo i primi ascolti, si capisce che Ira non è un disco semplice. Ci vorrà tempo per decifrarlo fino in fondo ed è giusto concedergli tutto lo sforzo che ci richiede. Ma, quando gli si chiede se ha paura che la sua scelta linguistica possa scoraggiare qualche ascoltatore, il musicista dà una riposta tanto sintetica quanto chiara: “Non ho alcuna paura”. E aggiunge: “Ogni operazione sul linguaggio è un’operazione politica. Ira si pone in aperto contrasto con la semplificazione di forme e idee alla quale siamo sottoposti”.
Con il suo nuovo album, Iosonouncane sembra aver abbracciato un orizzonte più vasto, aprendosi, perché no, anche al pubblico straniero. Nel farlo, ha scelto di sacrificare la parte più immediata della sua musica, scegliendo di non fare quel processo di sintesi che gli era riuscito così bene in Die. Si è preso un bel rischio. Tra qualche mese capiremo meglio se avrà avuto ragione oppure no.
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