“Ho bisogno di una folla di persone, ma non riesco ad affrontarle giorno per giorno”, cantava Neil Young in uno dei suoi pezzi più belli, On the beach. I musicisti vivono spesso questo conflitto costante tra la voglia di essere amati e famosi e il bisogno di stare da soli, di prendersi del tempo per alimentare la propria creatività senza interferenze esterne. Kendrick Lamar non fa eccezione. Nel periodo che ha preceduto l’uscita del suo ultimo album, Mr. Morale & The Big Steppers, il rapper californiano si è fatto notare per la sua assenza. Non ha parlato neanche durante le manifestazioni del movimento antirazzista Black lives matter, scoppiate nella primavera del 2020 in seguito all’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto bianco, in un momento in cui molti altri suoi colleghi avevano lanciato messaggi di solidarietà ai manifestanti. Proprio lui, che ha scritto inni cari alla comunità afroamericana come Alright, è rimasto nel suo cantuccio.
Ora però quel momento è passato, e Lamar è tornato a fare concerti. E l’ha fatto per la prima volta il 23 giugno al Milano summer festival all’ippodromo di San Siro – se si esclude il breve set di qualche giorno fa a Cannes, dove ha suonato una manciata di pezzi a un evento sponsorizzato da Spotify, e una data a novembre 2021 negli Stati Uniti – nella città dove si era esibito nove anni fa, in quella che finora era stata la sua unica apparizione nel nostro paese. Si è presentato in gran forma, accompagnato da un elegante corpo di ballo e da una band che si sentiva ma non si vedeva, nascosta dietro il palco come già era successo nel tour di Damn del 2017. E ha probabilmente fatto una specie di prova generale in vista della sua esibizione del 26 giugno al festival di Glastonbury.
Sono circa le 21.30 quando si spengono le luci e parte l’introduzione del brano United in grief. Un coro (registrato) recita il verso “I hope you find some peace of mind in this lifetime”, spero che tu possa trovare un po’ di pace mentale in questa vita, ricordando come la salute mentale sia il tema principale di Mr. Morale & The Big Steppers. I ballerini, pantaloni neri e camicia bianca, salgono sul palco. Poi arriva Lamar, in completo bianco e con i dreadlock sciolti. E comincia a sciorinare il suo flow come sempre impeccabile, concedendosi a tratti alle coreografie, ma tenendo sempre lo sguardo fisso sugli spettatori.
Lo si capisce quasi subito: il pubblico è una delle notizie migliori della serata. I 24mila arrivati all’ippodromo (non era un risultato scontato, nonostante la fama internazionale di Lamar, perché il rap straniero tradizionalmente in Italia fa fatica), di età media abbastanza bassa, vivono il concerto con grande partecipazione, rappano all’unisono una buona parte delle canzoni, applaudono il rapper tra un brano e l’altro e gli dedicano cori da stadio. È la dimostrazione che, a certe condizioni, in Italia c’è comunque un mercato per le star dell’hip hop internazionale, nonostante tutto. Peccato per qualche problema nell’organizzazione, a partire dalla gestione delle code all’ingresso, e per un impianto non del tutto all’altezza di uno show di queste dimensioni: i volumi erano troppo bassi, come hanno fatto notare soprattutto le persone che si trovavano più lontane dal palco. Ma l’atmosfera di festa riesce a compensare questi difetti, per fortuna.
Dopo il primo brano, forse per scaldare ulteriormente l’ambiente, Lamar tira fuori un filotto di pezzi dal suo secondo disco, Good kid, M.A.A.D city: e così arrivano, tra gli altri, Money trees, Backseat freestyle e Bitch, don’t kill my vibe, già diventati dei classici dell’hip hop statunitense.
Da questo momento in poi, salvo un paio d’incursioni nel repertorio di Mr. Morale & The big Steppers (che peccato non aver ascoltato Worldwide steppers, ma Lamar ha fatto comunque scelte molto interessanti, a partire dall’ottima Count me out), assistiamo a un greatest hits del repertorio del rapper: arrivano brani che mescolano temi autobiografici e questione razziale, come King kunta e Alright, estratti dal capolavoro To pimp a butterfly, e l’energico Dna, ma anche episodi più pop estratti da Damn, il disco con il quale Lamar ha vinto il premio Pulitzer nel 2018. La scaletta integrale si può leggere qui.
Alcuni pezzi Lamar li fa da solo sul palco, mentre in altri tornano i ballerini, con coreografie che spesso non sono del tutto a fuoco rispetto alla musica. Ma il concerto resta di alto livello, anche grazie alla scossa data da Humble, il pezzo più famoso di Lamar, con il suo riff martellante di piano che esalta la tecnica vocale del rapper. Finito il brano, gli spettatori continuano a ripetere in coro il ritornello “Bitch, be humble”, spingendo l’artista a fermare la base della successiva Love, mentre si rivolge ai tecnici del palco: “Aspetta, qua fuori c’è un pubblico splendido, godiamocelo”.
Prima della fine, c’è tempo per un discorso di Lamar, che ringrazia le persone per essere venute, dicendo “da Los Angeles vi ho pensato tanto”, e fa un appello all’uguaglianza. Parole non memorabili, ma che tutto sommato suonano sincere. Dopo aver cantato Savior, si prende l’ultima ovazione e promette: “Torneremo”.
Lamar è una grande star della musica internazionale, non l’abbiamo di certo scoperto ieri sera. Quello di Milano è stato un concerto dalle tinte pop, in grado di accontentare gli spettatori, al quale a tratti si poteva chiedere forse un po’ più di spada e un po’ meno fioretto, ma trovare sbavature in quello che fa sul palco questo musicista di 35 anni è difficile. Mentre torniamo a casa alzando la polvere dell’ippodromo con i piedi, viene da pensare che una serata del genere non era scontata. Il rapper di Compton, uscito in grande stile dalla solitudine degli ultimi anni, si è finalmente connesso con il pubblico italiano, che ha risposto in modo attento e caloroso. All’improvviso, forse, si è aperta una porta per il futuro, suo e nostro.
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