I festival spesso sono entità a sé. Si svolgono in un luogo, ma hanno un’identità propria. Un discorso che vale in particolare per lo Sziget, la manifestazione che si tiene ad agosto a Budapest sull’isola di Óbuda, in mezzo al Danubio. Il festival fu fondato nel 1993 da un gruppo di appassionati di musica dopo che la caduta del regime comunista aveva lasciato la musica dal vivo senza sovvenzioni statali. “Lo Sziget è l’isola della libertà”, ha detto orgoglioso il tassista che mi ha accompagnato in centro dall’aeroporto, riprendendo il motto del festival (The island of freedom). E due minuti dopo, mentre guidava veloce lungo un viale, con lo stesso orgoglio mi ha detto che il governo di Viktor Orbán, il primo ministro che ha trasformato l’Ungheria in uno stato autoritario e ha ridotto in silenzio la stampa libera, “sta facendo un ottimo lavoro, soprattutto per l’economia. Sta organizzando molti eventi che danno prestigio al nostro paese nel mondo”.

Ma quello che succede in Ungheria oggi non ha niente a che vedere con lo Sziget. Una volta arrivati sull’isola sembra di entrare in un’altra dimensione. Ci sono ovunque messaggi pacifisti, ecologisti (“There is no planet b”) e bandiere ucraine, in un’atmosfera da festa perenne. Le prime edizioni negli anni novanta erano quasi un raduno hippie, oggi non è più così, ma si respira comunque una certa rilassatezza nonostante l’inevitabile confusione tipica dei grandi festival.

L’isola quest’anno dal 10 al 15 agosto ha ospitato circa mille concerti sparsi per sessanta palchi. Una buona parte degli spettatori (quest’anno circa quarantamila) come da tradizione ha campeggiato a Óbuda (le ore di sonno accumulate in questi giorni devono essere state poche, dato che i concerti andavano avanti fino alle cinque del mattino). Venivano da varie parti d’Europa e del mondo (circa il 50 per cento del pubblico non era ungherese). Lungo i sentieri un po’ polverosi che collegavano i vari palchi capitava d’imbattersi nelle cose più sorprendenti: grandi giraffe di cartapesta, spettacoli di teatro sperimentale e musicisti itineranti che suonavano musica klezmer. C’era anche un circo, dove si esibivano giocolieri ed equilibristi. Insomma, lo Sziget (che in ungherese vuol dire proprio “isola”) è una piccola utopia che sembra la cosa più lontana possibile dall’autoritarismo dell’estrema destra di Orbán.

Billie Eilish sembrava il punto d’incontro perfetto tra il pop da classifica e il rock alternativo degli anni novanta

E poi c’erano i concerti. Per esempio quello di Billie Eilish, che si è esibita il 15 agosto di fronte a circa settantamila persone sul Main stage dedicated to Dan, il palco principale intitolato a Dan Panaitescu, uno dei fondatori del festival morto in un incidente stradale nel 2016. Eilish, in questa occasione, ha confermato di essere una fuoriclasse. Quando si è presentata sul palco verso le 21.15 sulle note di Bury a friend, si è capito da subito che, a soli 21 anni, è già diventata un’icona della musica contemporanea: pantaloncini corti, calze autoreggenti un po’ da Suicide girl, maglietta larga da hockey con la scritta “Famous 99” e cappellino di lana rosso con le corna da diavoletta, sembrava il punto d’incontro perfetto tra il pop da classifica e il rock alternativo degli anni novanta. Come se i Nirvana avessero flirtato con Rihanna.

La prima parte dello show di Eilish, con brani come Nda e la potente You should see me in a crown, era fatta su misura per Instagram, con i megaschermi che riprendevano la cantante, che a tratti lasciava spazio alle voci preregistrate (inevitabili, visto che i suoi dischi sono zeppi di sovraincisioni vocali) per concentrasi sulla performance fisica, saltellando e correndo sul palco. Poi però l’artista di Los Angeles ha dimostrato di saper fare anche le cose “alla vecchia maniera”: si è tolta il cappellino da diavoletta, si è seduta insieme al fratello e braccio destro Finneas – fino a quel momento diviso tra tastiere, chitarra e basso – per un set acustico venato di folk nel quale spiccavano Your power, sofferta riflessione su una relazione tossica e Tv, un pezzo nel quale il suo rapporto con l’insonnia si mescola a riflessioni politiche sul diritto all’aborto negli Stati Uniti. Eilish canta questi due brani con una delicatezza e una profondità da artista consumata, quasi da crooner.

Nell’ultima parte del concerto, dopo un appello ecologista, Eilish è tornata verso atmosfere elettroniche con l’elegante Everything I wanted e il singolo Bad guy, probabilmente il suo pezzo più famoso, nel quale l’artista ha ricominciato a saltare e a far saltare il pubblico. L’ultimo atto è arrivato con Happier than ever, tratta dall’omonimo secondo disco, un altro brano su una relazione tossica, stavolta riferito all’ex fidanzato e rapper Brandon Adams, con un crescendo di chitarre rock e urla liberatorie che ha portato lo spettacolo al suo picco emotivo.

Lazza, 14 agosto 2023. (Sziget festival)

Nei due giorni in cui sono stato al festival (il 14 e 15 agosto), ho visto tanti altri concerti. Nel cartellone c’era più spazio per il pop e il rap e un po’ meno per il rock (una tendenza diffusa ovunque, ormai). Menzione d’onore per il pubblico, molto caldo, curioso ma anche piuttosto ordinato quando deve spostarsi da un palco all’altro. Anche quest’anno allo Sziget erano presenti diversi artisti italiani.

La maggior parte di loro si è esibita al Light stage, un piccolo palco la cui direzione artistica era affidata a Ettore Folliero, ma alcuni hanno anche conquistato quelli più grandi: il 12 agosto Vinicio Capossela è salito sul Global stage, lo spazio dedicato ai suoni dal mondo, mentre il 14 agosto il rapper Lazza si è esibito sul palco principale insieme alla band, dando ai suoi brani rap un’anima quasi crossover, con chitarra e batteria in primo piano. In scaletta erano presenti i pezzi del suo ultimo album campione di vendite, Sirio, ma anche il singolo portato all’ultimo festival di Sanremo, Cenere. Lazza è diventato il terzo artista italiano a esibirsi sul Main stage in trent’anni di storia del festival: prima di lui era successo solo a Jovanotti nel 2006 e ai Subsonica nel 2010. La sua esibizione è cominciata alle quattro di pomeriggio, sotto un sole cocente che non ha spaventato un folto gruppo di italiani, protetti almeno in parte dall’ombra proiettata dal palco.

“È stata un’esperienza ottima, è stato un po’ come ripartire da zero, quando facevo le aperture agli altri artisti. E non mi aspettavo così tanta gente sotto al palco”, ha commentato Lazza dieci minuti dopo l’esibizione, seduto nel backstage con un paio di vistosi occhiali da sole. “Per questa occasione ho fatto un compromesso giusto tra il concerto con i beat che faccio di solito e uno più suonato. Sono stato a tanti spettacoli all’estero, da Drake a Post Malone, e in un certo senso mi sono ispirato a loro: presentarsi sul palco in questo modo fa veramente la differenza. Mi sarebbe piaciuto sentire la mia roba dalla prospettiva del pubblico per capire come veniva”. Che effetto gli ha fatto suonare allo Sziget? “È stato davvero bello. Ho fatto un percorso particolare in Italia, passando per tanta gavetta. Pensare che oggi c’era la stessa gente che c’era al Carroponte di Sesto San Giovanni un anno fa, a migliaia di chilometri da casa, mi fa emozionare”.

070 Shake, 15 agosto 2023. (Sziget festival)

Camminando tra un sentiero e l’altro, costeggiando le tende e i tanti chioschi e i bar disseminati per l’isola, nei due giorni passati allo Sziget ho costruito il mio itinerario: ho visto una Lorde in splendida forma, che a sorpresa ha aperto il concerto con il suo brano più famoso, Royals, un pezzo così bello da aver folgorato perfino Bruce Springsteen, e che sul finale ha duettato con Caroline Polacheck (il cui live invece mi ha convinto di meno) in una versione trascinante di Green light. Ho visto un Macklemore divertente ma a tratti un po’ troppo forzato nella ricerca dell’intrattenimento a tutti costi.

L’ultimo concerto che ho visto il 15 agosto, poco prima di tornare verso il centro di Budapest a bordo della barca ufficiale del festival, è stato quello di 070 Shake, rapper del New Jersey di origine portoricana e protetta di Kanye West, che ha fatto uno degli show più coinvolgenti di questa edizione. Durante la sua esibizione è successo tutto quello che rende lo Sziget un festival diverso dagli altri: a un certo punto dei ragazzi hanno portato la loro tenda e si sono visti un pezzo di concerto sdraiati.

070 Shake, quasi fosse Travis Scott, con la voce sempre filtrata dall’autotune (qualcuno dovrebbe far capire a certi pur bravissimi cantautori che autotune non è il diavolo, è uno strumento espressivo come gli altri), si è esibita nel suo miscuglio di rap, cantato e spoken word in brani come History e Vibrations, tratti dal suo ultimo disco You can’t kill me, e brani del suo album d’esordio Modus vivendi, come la splendida Guilty conscience. La rapper ha chiuso l’esibizione con una cover di Ghost town, il brano registrato insieme a Kanye West che l’ha fatta scoprire al grande pubblico nel 2018, cantando più volte il ritornello finale “and nothing hurts anymore, I feel kinda free”, niente fa più male, mi sento quasi libera. Ma, invece che finire lei il brano, ha lasciato il microfono a una ragazza con gli occhiali che era nelle prime file. La ragazza ha finito di cantare la canzone, anche con l’autotune, visibilmente emozionata ma anche sorprendentemente nella parte, mentre il resto del pubblico la inondava di applausi. Per essere un festival di quelle dimensioni, lo Sziget ha una barriera davvero sottile tra artisti e pubblico. Cose che possono succedere solo su un’isola.

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