L’anno scorso venticinque dei cento manager più pagati degli Stati Uniti hanno guadagnato più di quanto le loro aziende abbiano versato al fisco. Questi manager sono riusciti a far pagare meno tasse alle loro società e quindi sono stati ricompensati. Il rapporto annuale dell’Institute for policy studies, citato dalla direttrice del settimanale The Nation, Katrina vanden Heuvel, è illuminante. Ogni anno le aziende statunitensi riescono a eludere circa cento miliardi di dollari di tasse in modo perfettamente legale ricorrendo ai paradisi fiscali. È un meccanismo perverso che premia i risultati immediati (investimenti ad alto rischio, tagli indiscriminati del personale, trucchi contabili) e che si autoalimenta: gli stipendi dei manager sono decisi da comitati dove siedono altri manager che a loro volta sono a capo di altre società. Ma il legame tra elusione fiscale e stipendi dei dirigenti sembra spiegare in parte anche l’aumento impressionante del divario salariale tra manager e lavoratori: negli anni ottanta il rapporto tra il compenso di un manager e lo stipendio medio nella sua azienda era 40 a 1, nel 2009 era 263 a 1, ed è stato 325 a 1 l’anno scorso, in piena crisi economica. Vuol dire che un manager guadagna in un mese lo stipendio che un suo dipendente guadagna in 27 anni. Insomma, è giusto discutere se sia il caso di ritoccare l’aliquota sui redditi più alti, ed è senz’altro ammirevole che a chiederlo siano anche molti imprenditori miliardari, ma è proprio tutto il sistema che andrebbe ripensato. 

Internazionale, numero 914, 9 settembre 2011

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