“Diversi anni fa scrissi un articolo per il mio amico John Metcalf in cui affermavo una cosa che suscitò la reazione stupita dei lettori. E la loro sorpresa mi sorprese. Affermavo che non sempre, e nemmeno d’abitudine, leggo un racconto dall’inizio alla fine. Comincio da un punto qualsiasi e da lì mi muovo in varie direzioni.
È come se non leggessi, almeno non programmaticamente, per scoprire cosa succede. In realtà lo scopro comunque, e scoprirlo mi piace, ma ricavo molto di più da questa esperienza. Un racconto, affermavo, non è una strada su cui ci si incammina, è piuttosto una casa. Uno ci entra, ci sta dentro un po’, vaga qua e là, si sistema dove vuole e impara come ogni stanza e ogni corridoio siano collegati tra loro, come il mondo esterno sia modificato dalle finestre attraverso le quali lo si osserva.
Anche l’ospite, il lettore, subisce un cambiamento ritrovandosi in quello spazio chiuso, che sia ampio e accogliente o pieno di passaggi tortuosi, che sia arredato con sfarzo o con rarefatta semplicità. Può tornare in quella casa, in quella storia, ogni volta che vuole e ci troverà sempre qualcosa che non aveva notato prima.
E scoprirà che la casa ha un solido senso di sé, di qualcosa che è stato costruito per ragioni di interna necessità e non solo per proteggere o incantare il visitatore. Scrivere una storia così, longeva e indipendente, è la mia speranza, da sempre”.
Dall’introduzione di Alice Munro all’antologia Selected stories (Knopf 1996). *Traduzione di Susanna Basso per Internazionale. *
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