Alla fine hanno patteggiato. Google, Apple, Adobe e Intel hanno preferito evitare il processo che sarebbe dovuto cominciare alla fine di maggio in California. Le quattro aziende erano accusate da circa 64mila lavoratori di essersi accordate per non soffiarsi i dipendenti, di fatto bloccando la mobilità ed evitando gli aumenti salariali. L’accordo raggiunto prevede il pagamento di 324 milioni di dollari, mentre la cifra chiesta inizialmente era di tre miliardi.
“I lavoratori della Silicon valley hanno ottenuto una vittoria importante”, ha scritto il New York Times, “quello che non hanno ottenuto è un sacco di soldi”. Molti osservano tra l’altro che le quattro aziende in questione sono tra le più ricche degli Stati Uniti, e quindi del mondo. Alla domanda se servirà da lezione per la Silicon valley, l’avvocato dei lavoratori ha detto: “Lo spero, ma solo il tempo lo dirà”. Uno degli aspetti più interessanti della vicenda, però, sono le carte processuali, che offrono uno spaccato inedito delle relazioni industriali.
L’accordo per non assumere i lavoratori di un’altra azienda risale alla metà degli anni duemila ed era ovviamente segreto e illegale. Tanto che Eric E. Schmidt, chief executive della Google, scriveva in un’email di non voler lasciare troppe tracce scritte. Ma trattandosi di aziende con migliaia di impiegati, capitava che qualcuno, all’oscuro dell’accordo, cercasse di reclutare un dipendente della concorrenza, in buona fede, pensando di fare gli interessi della sua azienda. “Se assumi una sola di queste persone sarà guerra”, scrive Steve Jobs al capo della Google quando viene a sapere del tentativo di assumere un suo programmatore. Schmidt risponde a Jobs promettendogli che il reclutatore della Google che ha violato l’accordo sarà licenziato “nel giro di un’ora”. E Jobs gira l’email di Schmidt all’ufficio del personale della Apple, aggiungendo uno smile.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it