“Non abbiamo mai mandato dei giornalisti in zone di guerra, ma il 7 gennaio è stata la guerra a venire da noi”, raccontava qualche mese fa Riss, direttore di Charlie Hebdo. Mentre molti si interrogano sul ruolo dei giornalisti e si chiedono se questo mestiere abbia ancora un senso, la risposta più chiara arriva dal rapporto annuale di Reporters sans frontières (Rsf).

Nel 2015 sono stati uccisi 110 giornalisti in tutto il mondo, il numero più alto degli ultimi dieci anni. E se per la prima volta la Francia è al terzo posto della classifica dei paesi più colpiti, con gli otto giornalisti di Charlie Hebdo, sono comunque le zone di guerra a registrare il bollettino più grave: undici reporter uccisi in Iraq, undici in Siria, otto nello Yemen, sette nel Sud Sudan.

E poi i paesi che non sono formalmente in guerra, ma insanguinati da conflitti a bassa intensità: nove giornalisti uccisi in India, otto in Messico, sette nelle Filippine, sette in Honduras e poi quattro blogger uccisi in Bangladesh. Rsf parla di “violenza sempre più deliberata contro i giornalisti”.

E perfino il sonnolento segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha dichiarato: “Sono estremamente preoccupato per l’incapacità di ridurre la frequenza e l’ampiezza delle violenze mirate che colpiscono i giornalisti e per l’impunità quasi assoluta di questi crimini”.

I giornalisti vengono uccisi perché li si vuole ridurre al silenzio, intimidire. Segno che danno fastidio, dunque che svolgono ancora un ruolo fondamentale.

Questo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2016 a pagina 7 di Internazionale, con il titolo “Silenzio”. Compra questo numero| Abbonati

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