Questa è la storia di un dirottamento. All’inizio ci sono gli hippy, il pacifismo, le droghe psichedeliche sotto il sole della California, una controcultura basata anche sull’idea che i computer siano strumenti di liberazione intrinsecamente democratici. “Think different”, lo slogan pubblicitario della Apple negli anni novanta, portava ancora le tracce di quello spirito. Poi succede che le libertà individuali incontrano il mercato senza regole, e una rete di computer progettata con i soldi pubblici viene consegnata nelle mani di privati a cui nessuno pone limiti. È così che Facebook ha potuto trasformare una serie di attività prive di ogni funzione economica – chiacchierare con un amico o fargli vedere le foto delle vacanze – in una fonte di profitti.

Oggi le quattro principali aziende tecnologiche degli Stati Uniti valgono insieme tremila miliardi di dollari, ed è chiaro quanto fosse assurdo aspettarsi che facendo i loro interessi avrebbero fatto gli interessi di tutti. Qualcosa però può ancora cambiare. Grazie non solo alla consapevolezza sempre più diffusa che queste aziende debbano avere dei limiti, ma anche al tentativo di modificarle da dentro, con la mobilitazione di chi ci lavora. Non sarà facile, perché i dipendenti sono relativamente pochi e non hanno molto potere contrattuale (a Facebook lavorano 23mila persone, a Google 88mila, mentre alla Fiat Chrysler, per esempio, 234mila).

Ma ci sono piccoli segnali incoraggianti. L’ultimo è la petizione firmata da tremila impiegati e ingegneri di Google contro la partecipazione dell’azienda a un progetto del Pentagono che prevede l’uso dell’intelligenza artificiale per guidare i droni militari. La campagna è stata rilanciata dalla Tech workers coalition,
un gruppo che cerca di organizzare i lavoratori del settore tecnologico. Prossimo appuntamento: le manifestazioni del primo maggio nella Silicon valley.

Questa rubrica è uscita il 27 aprile 2018 nel numero 1253 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati

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