Beppe Grillo ha incontrato l’ambasciatore cinese in Italia, il signor Li Junhua. Fin qui nulla di strano. È normale, anzi, è perfino auspicabile che un ambasciatore incontri personalità di rilievo del paese di cui è ospite. E, piaccia o no, Grillo rientra in questa categoria.

Gli incontri sono stati due in ventiquattr’ore. Il primo a cena venerdì 22 novembre e il secondo nel tardo pomeriggio di sabato, nella sede dell’ambasciata in via Bruxelles a Roma. Qualcuno ha fatto notare che tra un incontro e l’altro Grillo ha visto Luigi Di Maio, ministro degli esteri, ma neanche questa è una stranezza. E gli incontri non sono stati esattamente “top secret”, come ha titolato qualche giornale italiano, tanto che lo stesso Grillo ne ha parlato su Facebook (“Un piacevole incontro ieri con l’ambasciatore della Cina Li Junhua. Gli ho portato del pesto e gli ho detto che se gli piacerà dovrà avvisarmi in tempo perché sarei in grado di spedirne una tonnellata alla settimana, sia con aglio che senza, per incoraggiare gli scambi economici!”) e Li Junhua ha pubblicato su Twitter una foto di entrambi.

Considerato tutto questo, non deve sorprendere neppure che pochi giorni prima, il 19 novembre, Grillo abbia pubblicato sul suo blog un testo che parla della regione cinese dello Xinjiang, al centro di “una campagna mediatica sui diritti umani volta a screditare l’operato del governo cinese”. In questo testo si cita una studiosa italiana secondo cui nella regione c’è “una buona convivenza tra han e uiguri e non si percepisce alcun tipo di discriminazione”.

Non sembrano essere d’accordo i 75 giornalisti di 14 paesi – da Le Monde al New York Times passando per la Bbc e il Guardian, di cui pubblichiamo l’articolo a pagina 18 – che hanno documentato l’esistenza di una rete di centri di detenzione in cui sono rinchiuse almeno un milione di persone della minoranza musulmana degli uiguri.

Questo articolo è uscito sul numero 1335 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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