Due uomini litigano in un parcheggio. Uno dei due spara all’altro e scappa. Una persona riprende la scena con il telefono e consegna il video alla polizia. Dopo venti minuti l’uomo che ha sparato viene arrestato. Non aveva precedenti, non aveva neppure la patente, quindi non c’erano sue tracce nei database della polizia, ma le autorità giudiziarie dello stato dell’Indiana hanno comprato un software che si chiama Clearview. L’inchiesta che racconta come funziona questo software è uscita sul New York Times la settimana scorsa.
La piccola azienda che lo produce è di un trentunenne di origine australiana che si chiama Hoan Ton-That. Clearview combina il riconoscimento facciale con un archivio di più di tre miliardi di fotografie scaricate da Facebook, YouTube, Instagram e milioni di siti web. “Se cambi le impostazioni di Facebook puoi evitare che le tue foto siano disponibili”, spiega Kashmir Hill, autore dell’inchiesta, “ma se sono state già scaricate, è troppo tardi”. Nell’ultimo anno più di 600 agenzie investigative e di polizia statunitensi hanno cominciato a usare Clearview, senza nessuna legge che ne regolamenti l’applicazione e senza neppure nessun dibattito pubblico.
Finora è servito per risolvere furti, aggressioni e omicidi, ma che succederebbe se fosse usato per identificare tutti quelli che hanno partecipato a una manifestazione, le persone che ha incontrato un politico, l’uomo o la donna con cui ieri abbiamo preso un caffè?
Il giornalista ha cercato di contattare i responsabili dell’azienda, senza successo. Poi ha chiesto a un paio di agenti di polizia di fare una prova con una sua foto. Stranamente, racconta, non hanno trovato nulla. Ma poco dopo qualcuno da Clearview ha chiamato i poliziotti dicendogli di non parlare con i giornalisti. Per quello che se ne sa oggi, Clearview potrebbe non essere la prima né l’unica azienda a produrre questo tipo di software. Certamente non sarà l’ultima.
Questo articolo è uscito sul numero 1342 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati
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