Per i giornalisti di tutto il mondo, il posto di corrispondente da Washington è uno dei più ambiti. Di solito è riservato alle firme prestigiose o è il premio al termine di una brillante carriera. Si segue da vicino la vita politica di un paese considerato tra i più importanti del mondo. Ed è un incarico in cui l’unico rischio è restare seduti per ore a seguire i lunghi dibattiti del senato. Ma da qualche tempo non è più così.

In un articolo uscito sull’Atlantic, Yasmeen Serhan spiega che nelle ultime manifestazioni contro il razzismo i giornalisti, anche stranieri, sono stati sistematicamente presi di mira dalla polizia con gas lacrimogeni, proiettili di gomma, spray urticanti e arresti indiscriminati. A tutt’oggi, l’U.S. Press Freedom Tracker ha documentato oltre 440 violazioni della libertà di stampa avvenute nel corso delle proteste successive all’uccisione di George Floyd, il 25 maggio. “Quando sono arrivata negli Stati Uniti mi aspettavo una situazione come quella tedesca”, ha raccontato Alexandra von Nahmen, corrispondente della Deutsche Welle, la cui troupe ha avuto per due volte problemi con la polizia. I suoi colleghi avevano vissuto esperienze simili in Russia, ma non si aspettavano niente del genere negli Stati Uniti.

Come non se lo aspettava Sonia Dridi, giornalista di France 24, a cui le scene di queste settimane hanno ricordato quelle vissute al Cairo, in Egitto, durante le rivolte di piazza Tahrir, quando i giornalisti erano stati presi di mira dall’esercito. La violenza della polizia contro i giornalisti va spesso di pari passo con quella contro i manifestanti pacifici (in Italia fu così, per esempio, al G8 di Genova del luglio 2001). Nel caso degli Stati Uniti gli aspetti preoccupanti sono due. Il primo è che le aggressioni ai giornalisti arrivano al culmine di una lunga campagna di attacchi verbali avviata da Donald Trump. E il secondo è che possano essere presi a esempio in altre parti del mondo.

Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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